Il crollo delle criptovalute, il rialzo dei tassi negli Stati Uniti e le difficoltà di una crisi che rischia di sfuggir al controllo dei singoli stati. Su questi temi abbiamo intervistato il Prof. Ubaldo Livolsi, banchiere ed advisor, esperto internazionale dei mercati finanziari.
Prof. Livolsi, si sente spesso parlare di finanza del futuro blockchain, ed oggi le grandi case di investimento come Black Rock guardano a questo mondo e le più grandi realtà del risparmio gestito come Azimut in questi giorni annunciano la creazione del primo fondo in Lussemburgo sulle criptovalute. Il gruppo ha ottenuto dall’autorità di vigilanza del Granducato l’autorizzazione per la gestione di strategie basate su virtual asset, Azimut Raif Digital che investirà in bitcoin, Digital Asset, Etf, fondi ed equity di società fintech e blockchain-linked, cosa pensa di questo mondo?
Le organizzazioni finanziarie guardano alle criptovalute come a una tendenza rispetto a cui essere aggiornati e hanno al loro interno sezioni dedicate sull’argomento e così si spiegano alcune iniziative come quelle da lei citate. Tuttavia, la scorsa settimana il bitcoin, la valuta digitale più popolare, che rappresenta il 40% del mercato delle monete digitali, è crollato drasticamente, a un livello pari al 60% in meno rispetto al massimo storico dello scorso novembre e al minimo dalla fine del 2020. Gli analisti si chiedono se non sia scoppiata la bolla delle criptovalute. El Salvador, che aveva riconosciuto il bitcoin come moneta di Stato inserendolo nelle proprie riserve monetarie, rischia di non potere pagare un bond di 800 milioni di dollari in scadenza a gennaio e di fare default. Tutti questi elementi dimostrano che bisogna ancora avere molta prudenza per quanto riguarda le criptovalute e coloro che pensavano che la tecnologia determinasse una democrazia finanziaria più stabile e protetta dalle speculazioni di Wall Street, sembra che siano smentiti dai fatti della settimana scorsa. Questa vicenda dimostra anche che la finanza per funzionare deve avere un contesto chiaro e il più possibile delimitato di regole. Altrimenti c’è il rischio di assistere a una sorta di riedizione della bolla dei tulipani, descritta in tutti i libri di macroeconomia, la crisi speculativa sui prezzi dei bulbi dei fiori scoppiata nell’economia olandese del Seicento, innescata dall’utilizzo di strumenti finanziari con finalità speculative. Tutto ciò non significa che non si debba continuare a monitorare e considerare la moneta digitale come uno strumento con cui confrontarsi, da studiare e approfondire.
Dopo l’annuncio della Fed sull’innalzamento dei tassi giovedì scorso, crollano tutti i mercati mondiali. A meno di un miracolo, i prossimi mesi potrebbero portare al più grande errore di politica monetaria dagli anni 70. L’errore, sia della Fed che della Bce, è stato quello considerare l’inflazione un fenomeno “transitorio” che non richiedeva una reazione immediata. Il problema è che, dopo aver aspettato troppo, la Fed ha un margine d’errore limitatissimo. Cosa pensa della reazione dei mercati alle banche centrali delle ultime settimane?
Il dibattito sull’innalzamento del costo del denaro da parte della Fed negli Stati Uniti d’America e della Bce in Europa è molto interessante perché ha evidenziato come il contesto che spinge al ricorso a tale strumento possa cambiare e mi riferisco per esempio a come l’Europa abbai sostenuto i debiti degli Stati comprando i loro bond. Non dimentichiamo poi che prima si è manifestato il cigno nero della pandemia da Covid 19, iniziata nel dicembre del 2019 e da cui finalmente stiamo ora uscendo, poi quello dell’invasione russa in Ucraina, che ha preso il via il 24 febbraio scorso. Alla luce di questa premessa, rimango convinto che la scelta di non considerare l’inflazione legata strettamente alla domanda sia stata in gran parte, anche se non totalmente, corretta. Lo spiega anche il fatto che l’aumento del tasso di sconto non è mai apparso sostanzialmente indispensabile e veniva rinviato, cosa che la Bce continua a fare. Per cercare di capire meglio, bisogna poi distinguere tra le ragioni della banca centrale Usa da quelle dell’Unione europea. Gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a un’inflazione determinata da una serie di cause – per citarne alcune, dagli effetti della pandemia, all’aumento del costo delle materie prime alla difficolta di approvvigionamento di componenti elettronici – che aveva raggiunto livelli troppo alti, toccando l’8,5%, valore record dal 1981. La crescita stava frenando e l’inflazione doveva essere tenuta sotto controllo, di qui la decisione dell’incremento dei tassi. Anche in Europa, l’inflazione è alta, 7,5% ad aprile, ma in questo caso è per così dire sproporzionata rispetto al costo del denaro e presto l’istituto presieduto da Christine Lagarde interverrà sicuramente.
Secondo Lei, in una condizione estremamente complicata, tra shock legato al costo delle materie prime, la guerra, la Cina nuovamente in lockdown ed il rallentamento della ripresa economica post Covid, l’unico modo per frenare il forsennato rialzo dei prezzi è aumentare il costo del denaro come afferma la Fed?
L’innalzamento del costo del denaro pianificato in più riprese dalla Fed, come detto, a mio parere si rivelerà una scelta necessaria per non frenare la crescita in una congiuntura complicata e drammatica come quella che stiamo vivendo. L’innalzamento dei tassi non sarà l’unica soluzione. Siamo di fronte al rischio di una crisi economica globale paurosa. Sarà fondamentale aumentare l’offerta e controllare il prezzo dell’energia, a partire da quelli del gas e del petrolio, come quello delle materie prime e anche delle derrate alimentari. Tutto ciò è strettamente connesso alla guerra in Ucraina, pensiamo ai fertilizzati che arrivano da quel Paese o alle navi con le stive piene di grano che non possono uscite dal porto di Odessa. Il metodo, l’unico possibile, è il coordinamento tra i Paesi dell’Occidente più sviluppati e gli Usa, non solo per quanto riguarda il tema delle sanzioni economiche e commerciali, ma anche della definizione di accordi di reciproco sostegno e politiche comuni, come quella sull’approvvigionamento energetico tra gli Stati membri dell’Ue. La strada è difficile, pensiamo per esempio all’opposizione dell’Ungheria alla rinuncia al petrolio russo. Certamente un ruolo fondamentale lo avrà – come lascia intendere la sua domanda – la Cina, e dovremo vedere le sue prossime decisioni. Finora Pechino vive l’ambiguità di appoggiare Mosca, una scelta per così dire obbligata, in chiave antioccidentale, ma dall’altra parte i mercati occidentali rappresentano lo sbocco principale e vitale per le sue esportazioni e la sua economia.