Trick or treat? La notte di Halloween avrebbe dovuto portare con sé la Brexit. Invece, ecco a voi le terze elezioni politiche degli ultimi quattro anni, beninteso oltre al famoso referendum. E questo dopo vari tentativi andati a vuoto da parte di Boris Johnson di far passare il suo accordo con l’Unione Europea, ennesimo capitolo di una saga che non ha mai smesso di annoiare l’occhio curioso dell’osservatore d’oltremanica.
A tratti, infatti, la sensazione è stata quella di perdersi nella maestosità distopica del Guernica di Picasso in un altrove che passava per il Reina Sofia di Madrid, in quella Spagna tanto amata dal popolo inglese: diversa la storia, di guerra civile si é trattato. Ne più, né meno.
E così dopo l’ennesimo agguato teso dall’opposizione a un governo di minoranza, è stato chiaro a tutti che l’unico modo per mettere fine al corto circuito di un parlamento che non rappresentava più i suoi elettori era quello di resettare tutto e ripartire dal giorno dopo, venerdì 13 dicembre, data nefasta per la scaramanzia.
QUESTIONE DI LEADERSHIP?
Pronti, via. I primi sondaggi danno Boris vincente intorno al 40%, i laburisti anti-elite stabili intorno al 25, i liberaldemocratici al 20 e il Brexit Party in discesa al 7. Spiegazioni ce ne sarebbero. Per esempio, una è quella che ha a che fare con la differenza tra i due stili di leadership dei due principali leader di partito: spumeggiante quella di Boris, un fiume in piena di preparazione e intelligenza tattica e strategica condita da una retorica che non ha eguali al mondo, quel di Cesare conoscete la storia, no? Risultato, 8 elettori conservatori su 10 sono talmente entusiasti da promettere il proprio voto al successore di una grigia Theresa May.
Sfumature, queste ultime, condivise dal principale antagonista della storia: Jeremy Corbin. Il leader dei laburisti ha letteralmente spaccato il suo partito in quanto a gradimento (46% pro e 49% contro). Ma lui è uno tosto, va fino in fondo senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno alle due mogli da cui ha divorziato perché avrebbero voluto mandare i figli in scuole private. Neanche a parlarne. Corbin che vive a Islington, quartiere a nord di Londra che conta metà dei suoi abitanti vivere in case popolari, è a differenza di Boris un esempio assoluto di coerenza ideologica. For the many, not the few la linea, dentro e fuori. Chapeau.
L’UNIONE IN TESTA
Tuttavia, sentendoli duettare in parlamento, sembra che tra i due ci sia stato un patto implicito per spostare il focus del dibattito altrove, lontano dal referendum. E così Boris e Jeremy hanno cominciato a darsele senza esclusione di colpi sul tema più caro ai sudditi di Sua Maestà: il sistema sanitario nazionale. I sondaggi restituiscono una sostanziale parità: 35% a 34%.
La mossa in realtà serve a ribadire il concetto che in palio c’è molto di più che restare o meno nell’Unione Europea: si tratta dell’unità del Regno, profondamente diviso tra un nord povero e un sud ricco, le tendenze separatiste scozzesi, l’annosa questione del Nord Irlanda e il crescente malcontento gallese, la sicurezza nazionale, il sistema scolastico, la questione ambientale, trasporti, difesa e immigrazione senza contare le questioni di politica economica e fiscale. Per questo, il messaggio, condiviso più o meno da tutte le forze in campo, è riunire il paese e riportarlo sui binari che gli sono propri. Certo, con ricette diverse, ma tant’è.
Per questo sia i liberaldemocratici che gli esponenti del Brexit Party, si trovano in un certo modo spiazzati avendo un messaggio che ruota tutto intorno, gli uni alla revoca dell’articolo 50 che però di liberale ha ben poco, onestà intellettuale vuole, perché il voto popolare è sacro, soprattutto se lo si è sposato “moralmente”; gli altri, tesi a una uscita netta, senza se e senza ma e sotto le regole dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio.
E proprio Nigel Farage, principale esponente di questa corrente di pensiero coltivata nel ventre delle istituzioni europee negli ultimi due decenni, ha ritirato molti candidati per supportare il partito conservatore. Alcuni sostengono perché i tories sarebbero diventati loro il partito della Brexit, vedi uno dei suoi leader Iain Duncan Smith dichiarare, “Siamo noi il partito della Brexit, perché non possiamo occupare altro spazio”, nonostante Boris si sia affannato a dichiarare di voler giocare la partita da conservatore moderato, circostanza che stride con le dimissioni di una ventina di deputati centristi, in maggioranza donne, che hanno deciso di chiudersi la porta di Downing Street alle spalle a causa dell’aria tossica che ivi si respira.
Nelle urne, quindi, i moderati potrebbero finire per fare la differenza perché, stando così le cose, nessuno avrebbe la maggioranza assoluta cosa che apre alla necessità di alleanze, come quella già proposta da Corbyn ai separatisi scozzesi con la promessa di un secondo referendum sulla indipendenza della Scozia o come quella, minimizzata, tra libdem, verdi e i socialdemocratici gallesi di Plaid Cymru.
Come andrà a finire è presto per dire, la situazione è assai volatile e appena all’inizio. Date queste premesse, l’esasperazione degli elettori e il timore, secondo i più, che si tratterà della tornata dai toni più accesi della storia politica inglese, che Dio salvi la Regina.