Facebook e il suo algoritmo salgono sul banco degli imputati (sai che novità….). A trascinare la creatura di Mark Zuckerberg davanti ai togati californiani, stavolta, sono stati i rifugiati Rohingya, un gruppo etnico di religione islamica perseguitato in Birmania (paese a predominanza buddista).
L’accusa a carico di Facebook
L’accusa formulata a carico del social network dai perseguitati rohingyanesi è quella di aver consentito la diffusione di messaggi di odio contro tale minoranza etnica, per mezzo dei propri algoritmi. Essi, secondo tali accuse, infatti, sono stati utilizzati per favorire la disinformazione e le ideologie estremiste che, sebbene formulati nell’ambiente virtuale, hanno condotto ad atti violenti nel mondo reale.
“La realtà innegabile è che la crescita di Facebook, alimentata da odio, divisione e disinformazione, ha lasciato sulla sua strada centinaia di migliaia di vite Rohingya devastate” hanno affermato i denuncianti che, come ristoro, hanno chiesto un risarcimento da oltre 150 miliardi di dollari.
Il ruolo degli algoritmi nella diffusione dell’odio
La querela afferma che gli algoritmi del social network più popolare al mondo hanno spinto molto utenti verso gruppi ancora più estremisti di quanto non siano. Il social, secondo ancora la minoranza musulmana, non è riuscita inoltre ad eliminare i post più offensivi, cosa che ha fatto credere che Facebook sia stata “disposta a scambiare le vite dei Rohingya per una migliore penetrazione del mercato in un piccolo Paese nel sud-est asiatico”.
Dal quartier generale di Facebook le accuse, ritenute infondate, vengono rispedite al mittente. In attesa di scoprire chi abbia ragione rimane un fatto: il mondo (e le vite umane) sono sempre più in mano alla matematica algoritmica che, almeno in questi casi, è lungi dal potersi definire scienza esatta.