venerdì, 15 Novembre, 2024
Sport e Fair Play

La responsabilità al centro della disciplina sportiva

 

In tema di responsabilità sportiva è opportuno distinguere tra discipline sportive che si caratterizzano per un contatto fisico di particolare vigore e discipline sportive sportive nelle quali non è verosimile un contrasto fisico tra partecipanti.

Più in dettaglio:

  • negli sport nei quali la violenza o l’aspetto del contrasto fisico è difficilmente ipotizzabile, la responsabilità è maggiore e la si riconosce esistente ogni volta in cui il danno dipende dalla circostanza che l’atleta abbia violato una norma di regolamento;
  • negli sport nei quali contrasti anche energici o l’aspetto del contrasto fisico è normalmente ipotizzabile, l’esistenza della responsabilità è oggetto di ampio dibattito e comunque si attenua in ragione del principio dell’esimente sportiva.

Una parte degli studiosi integra tale principio con la teoria del consenso dell’avente diritto, specificando che la violazione debba, comunque, rientrare nel concetto di ‘violenza base’, ossia in quei comportamenti che, seppur scorretti, sono tipici di quella specifica attività sportiva, nel senso che sono tradizionalmente consentiti.

Si pensi, ad esempio, all’emblematico colpo che, durante un partita di hockey sul ghiaccio, costò la vita all’atleta Miran Schrott il 14 gennaio 1992, durante una partita di serie B: l’atleta si accasciò dopo essere stato colpito al petto con la stecca, ma il fallo venne sanzionato solamente con una penalità minore dal capo arbitro, mentre la vicenda penale si concluse con un verdetto di condanna a una lieve sanzione economica, per omicidio colposo, poiché i giudici riconobbero che l’azione fu un normale fallo di gioco, senza reale volontà di fare male all’avversario.

Attualmente, il riconoscimento della responsabilità segue l’impostazione della teoria finalistica: da un lato si valuta il rispetto delle regole del gioco e dall’altro si valuta se l’azione che ha cagionato l’evento dannoso, sia stata finalisticamente orientata all’azione di gioco ovvero sia stata solo un’occasione per compiere un atto scorretto.

In tale senso si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la Sentenza n. 1951 del 21 febbraio 2000. Premesso che l’esercizio di attività sportiva, entro i limiti di quello che può essere definito “rischio consentito”, si configura come causa di giustificazione non codificata rispetto ai fatti lesivi dell’integrità personale cui esso abbia dato luogo, deve escludersi che detta causa di giustificazione possa operare quando si violino volontariamente le regole del gioco, venendo così meno ai doveri di lealtà verso l’avversario (nel qual caso si risponderà a titolo di colpa, ove il mancato rispetto delle regole del gioco sia determinato soltanto dall’ansia del risultato), ovvero quando la gara rappresenti soltanto l’occasione della condotta volta a cagionare l’evento lesivo, come pure quando tale condotta non sia immediatamente rivolta all’azione di gioco, ma sia piuttosto diretta ad intimorire l’antagonista oppure a “punirlo” per un precedente fallo da lui commesso (ipotesi tutte, queste, nelle quali si risponderà, invece, a titolo di dolo). Nella specie, in applicazione di tali principi la Suprema Corte aveva ritenuto che correttamente fosse stato configurato il reato di lesioni personali volontarie a carico di un giocatore di pallacanestro il quale, in fase di c.d. “gioco fermo” – aspettandosi la rimessa in campo della palla – aveva colpito volontariamente con un pugno alla mascella un giocatore della squadra avversaria.

La violazione del principio di lealtà sportiva, per i soggetti tesserati, si può configurare come responsabilità disciplinare diretta, che si sostanzia nei comportamenti che violano il predetto principio, secondo una valutazione che viene compiuta in relazione al singolo caso e non in astratto, seppur con linee di giudizio ampiamente condivise e relativamente uniformi, oppure come responsabilità disciplinare indiretta, che consiste in condotte che infrangono accordi negoziali o norme federali. In questo caso la violazione del principio di lealtà sportiva si configura di riflesso rispetto alla violazione specifica, e si somma ad essa costituendo autonoma e distinta ipotesi di incolpazione.

Le tipologie di responsabilità disciplinare dei soggetti affiliati, cioè dei sodalizi appartenenti all’ordinamento sportivo, si distinguono in:

  • responsabilità disciplinare diretta, che si configura per la diretta riconducibilità all’affiliato degli atti compiuti dai suoi organi rappresentativi:
  • responsabilità disciplinare oggettiva, che si caratterizza – anche in mancanza di dolo o colpa e indipendentemente da requisiti soggettivi – per vedere il soggetto affiliato chiamato a rispondere disciplinarmente del comportamento di altri soggetti, anche terzi rispetto ai propri organi rappresentativi o al contesto strettamente federale/sportivo;
  • responsabilità disciplinare presunta, che si configura quando la norma sportiva impone all’affiliato, per risultare esente da responsabilità disciplinare per fatti commessi da terzi a proprio vantaggio, di dimostrare di non avere avuto parte nell’attività illecita o comunque di averla ignorata.

A sua volta, la responsabilità oggettiva può configurarsi con riferimento a tre categorie ambiti:

  1. operato di dirigenti, tesserati, soci o non soci cui è riconducibile il controllo della società e/o che svolgano attività e servizi per la società, rilevanti per l’ordinamento federale;
  2. operato di dipendenti, persone addette ai servizi e sostenitori;
  3. fatti occorsi in violazione delle norme di ordine e sicurezza pubblica occorsi prima durante e dopo una competizione sportiva, all’interno e/o nelle immediate adiacenze del luogo di gara.

Da più parti, soprattutto negli ultimi anni, sono state sollevate perplessità sull’opportunità del ricorso così ampio a tale istituto, e sulla sua compatibilità con i principi di civiltà giuridica. Per ovviare ad alcune delle critiche mosse all’istituto e circoscrivere l’attribuzione generalizzata e acritica della responsabilità oggettiva, più recentemente – in particolare in ambito calcistico – sono stati introdotti istituti idonei a configurare una esimente a tale responsabilità, secondo modelli riconducibili a quanto previsto dal Dlgs 231/2001 in materia di responsabilità degli enti per gli illeciti dipendenti da reato.

Tuttavia, si deve tenere conto che attraverso il così ampio ricorso all’istituto della responsabilità oggettiva, l’ordinamento sportivo esprime il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo, si assicura un valido strumento per assicurare l’impegno attivo delle società sportive a prevenire eventi idonei a turbare il regolare svolgimento delle competizioni sportive e mette in campo un deterrente utile a contrastare i fatti violenti commessi dalle tifoserie in occasione di manifestazioni sportive, anche in questo caso responsabilizzando le società.

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