È questa un’indagine sul significato letterario di due parole, “umiltà” e “modestia”, che, a mio modo di vedere, costituiscono una profonda dicotomia della lingua italiana, di più, credo si tratti di una evidente incompatibilità di significati. Sfogliando virtualmente la Treccani mi sono imbattuto in una definizione che ha destato in me assoluta perplessità. L’opera recita ancora oggi: umiltà è … “la qualità di ciò che è umile, non nobile, modesto”. Dissento profondamente e su questo asserto mi vedo costretto a sfoderare le buone armi della critica nei confronti di una fra le maggiori istituzioni letterarie in Italia, il “portale del sapere”, come è stata definita.
L’umiltà è la principale virtù cristiana, quella che comprende tutte le virtù, la più alta condizione dello spirito, di chi è virtuoso, buono e saggio, assolutamente nobile d’animo e votato alla santità. Se ciò è vero, e lo è secondo la dottrina cristiana che così tanto influenza i sentimenti diffusi dell’intero occidente, possiamo considerare inutilizzabile la prima definizione della Treccani, quella che omologa “umiltà” all’idea di ciò che “non è nobile”, ma altrettanto vale per la seconda definizione: “umiltà” intesa come ciò che è fattualmente “modesto”, anche perché “modesto”, questa volta appropriatamente, è definito dalla stessa Treccani “persona o cosa dal carattere modico, esiguo”, dunque cosa o persona che vale poco, ed è decisamente poco credibile che una grande virtù possa raffigurare “modicità” ed “esiguità” anziché grandezza di spirito e di intenti.
Usciamo però dall’astrattezza spiritual-religiosa e volgiamo lo sguardo di questa disamina alla vita pratica, all’uso della lingua di tutti i giorni. Cosa potrebbe significare, ad esempio, “questo personaggio è davvero modesto”? La risposta è immediata: “personaggio che vale poco”, “esiguo”, poco significativo. E cos’altro potrebbe invece voler dire “l’umiltà di questo personaggio è un nostro punto di forza”? Molto evidentemente, e con coerenza lessicale, l’affermazione dell’evidenza di un valore. Ma ancora, la nozione “modesto” viene spesso usata con riferimento a beni materiali, oltre che a persone di modesto livello e levatura. Riferendoci ai beni materiali, ad esempio, potremmo affermare “questi prodotti sono assolutamente di qualità modesta”, ma ciò non avviene certamente per la nozione di “umiltà” che è riferibile soltanto a valori interiori della persona umana alta. Può forse un qualsiasi prodotto materiale o animale essere definito “umile”? Sicuramente no, salvo attribuirgli l’anima, cosa non infrequente, ma allora il gioco cambia, parliamo di “anime” e di anime alte.
Fatta questa doverosa premessa può sorgere il dubbio che il concetto di “umiltà” possa facilmente entrare in sintonia con un’altra parola anch’essa non nobile: “immodestia” (Treccani, significato: alterigia, presunzione, superbia). Persona umana “umile e immodesta”, coppia valutativa certamente anch’essa dubbia ma almeno umanamente più prossima ad una rappresentazione della realtà: l’eccellenza dello spirito umile che si allea con la materiale, altera manifestazione di un’esplicita manifestazione di valore.
Ed ecco che torna utile citare un grande filosofo americano del XIX secolo, Ralph Waldo Emerson: “Pitagora fu frainteso, e Socrate, Gesù, Lutero, Copernico, Galileo e Newton, e così fu di ogni più puro e saggio spirito che abbia preso carne. Essere grandi significa essere fraintesi”.
Fra i grandi uomini citati da Emerson, è utile per la conclusione di questo ragionamento la figura di Gesù di Nazareth. Gesù seppe essere l’uomo più umile per grandezza valoriale, per immensa spiritualità, per l’amore incondizionato rivolto ai poveri e ai reietti, davvero improbabile considerare modesto il figlio di Dio, anzi Dio stesso fatto uomo. Questo fraintendimento sulla natura tutt’altro che modesta dell’umiltà di Gesù, unito all’altro storicamente accertato sulla natura terrena o divina del Regno, provocò la condanna e il dolore e la mortificazione di una morte in croce.