La disposizione interiore del medico cattolico nella relazione con il paziente non solo prescinde criteri personali di scelta o di giudizio, quindi è uguale verso tutti, ma va ancora oltre. Fino alla misericordia.
Ciò non vuol dire che noi, se non siamo in Dio, siamo capaci di misericordia… ne siamo soltanto l’espressione, nella misura in cui ci disponiamo ad accettare che lo Spirito la renda tangibile per tramite nostro. La misericordia infatti è un atto teologico, il cui agente è Dio stesso. Dio ha la tenerezza di un padre ed il trasporto di una madre. In Ebraico l’etimologia di “misericordia” fa riferimento all’utero, che lega madre e figlio in un rapporto indissolubile di reciprocità, in cui si instaurano la compartecipazione (sono entrambi parti di un unicum) e la compassione (sentono le emozioni all’unisono). “Essere misericordiosi equivale, allora, a essere presi “fin nelle viscere”, con un amore profondo, intimo, spontaneo e assoluto fino a raggiungere il culmine descritto da Gesù nell’ultima cena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici», Gv 15,13” (S.E. Gianfranco Card. Ravasi).
La “maternità” di Dio va ben oltre la maternità umana. E’ evocata da Isaia (49,15): “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se tua madre si dimenticasse di te, io non ti dimenticherò mai”.
Il medico cattolico c’è, anche per chi è dimenticato, anche per chi, a volte pur ricco di figli, è povero d’amore, abbandonato. Decenni di professione hanno insegnato a tutti noi che la relazione con il Paziente “è” una relazione “materna”.