Stiamo tutti gioendo e siamo tutti compiaciuti, specialmente noi italiani, per il provvedimento di martedì 7 dicembre 2021 del Tribunale di Mansura, che ha disposto la scarcerazione di Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato poco meno di due anni fa, per accuse di istigazione alla violenza, proteste e terrorismo e che potrà aspettare il processo a piede libero.
Un compiacimento unanime in Italia, quasi un sentimento gioioso da vittoria della nazionale di calcio, che coinvolge tutti e nel quale ciascuno sente di avere dato il suo contributo. Finanche i giustizialisti, che sarebbero felici, in Italia, di abrogare i diritti dell’imputato e possibilmente di ridurre l’avvocato difensore ad una necessaria comparsa, ma senza consentirgli alcuna battuta; persino – e a mio avviso sono i peggiori – quelli che sono (a parole) garantisti per gli amici o per certi ceti sociali, ma che butterebbero la chiave appena i sospetti si rivolgono su individui da loro diversi, magari soltanto per etnia o per censo.
Si tratta di una gioia e di un compiacimento facile: l’Egitto non è certo uno Stato di diritto, la sua magistratura non è indipendente, le sue leggi – come accade spessissimo – sono contrarie al diritto e violano le Libertà Fondamentali e i Diritti Inviolabili dell’Uomo.
Violazione quest’ultima che, per la verità, è molto praticata anche dal nostro democratico Stato: l’Italia è tra i clienti più affezionati della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da questa condannata migliaia di volte: quasi sempre proprio in materia di amministrazione della giustizia.
Naturalmente anch’io gioisco della fine del carcere preventivo e la vicenda di Zaki l’ho seguita con attenzione. Inelegantemente citerò, svolgendo il mio pensiero, i miei precedenti articoli sul tema (tutti in questa rubrica), a testimonianza di un discorso più complesso e più meditato di quello che è possibile in cinquemila battute e che mi potrebbe fare apparire soltanto come un guastafeste.
Il punto è che, fin dall’inizio, questa facile unanimità determinatasi sul caso Zaki mi ha infastidito («Zaki, noi, le leggi, il potere», 16 febbraio 2020).
Non ho sopportato che tutti si riempissero la bocca con una facile tutela del diritto, chiudendo completamente gli occhi sulla nostra situazione giudiziaria e carceraria.
È vero, le differenze tra le situazione egiziana e quella italiana sono abissali.
Di là c’è un regime semi totalitario, una magistratura non autonoma, leggi liberticide («Zaki e la giustizia “serva”», 2 agosto 2020). Ma ciò non vuol dire che da questa parte del Mediterraneo siamo un esempio di civiltà: l’ammonimento biblico mi è quindi sembrato inevitabile («Zaki, la pagliuzza e la trave», 18 aprile 2021), perché bisogna aprire gli occhi anche sui nostri limiti e problemi, non soltanto su quelli degli altri. Così che ho festeggiato e celebrato come un trionfo della nostra giustizia la decisione della Corte d’Assise di Roma di annullare il processo Regeni (ci voleva coraggio), per non essere stati messi gli agenti segreti egiziani imputati dell’omicidio del ricercatore italiano in condizione di esercitare il diritto di difesa: fatto, notavo, che, se per ipotesi fosse stato ignorato dai giudici italiani, non avrebbe certo superato la verifica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma che, soprattutto, avrebbe ridotto la giustizia italiana ad una parodia, l’avrebbe retrocessa allo stesso ruolo di quella egiziana, che ci ha indignato tutti («Processi Regeni e Zaki: diritto e barbarie», 17 ottobre 2021).
Eppure Zaki si è trovato fino a oggi nella medesima situazione dei 12.733 (dati al 31 dicembre 2020, Fonte Ministero della Giustizia), presunti innocenti costretti alla carcerazione prima dell’accertamento della loro reità.
Uno strumento, quello della carcerazione preventiva, che dovrebbe essere eccezionale, riservato a casi estremi, per il tempo strettamente necessario e con un regime carcerario differenziato. Un istituto che è invece, abusato, come attestano le circa mille condanne l’anno dalla Cedu all’Italia per illegittima detenzione e che va assolutamente rivisto.
Patrick Zaki, presunto innocente, è stato arrestato in Egitto il 7 febbraio 2020 e rilasciato l’8 dicembre 2021, dopo 670 giorni di carcere preventivo e aspetterà il processo a piede libero.
Giancarlo Pittelli, presunto innocente, è stato arrestato in Italia il 19 dicembre 2019 e arrestato nuovamente, sempre da presunto innocente, l’8 dicembre 2021, dopo 720 giorni di carcere preventivo e aspetterà i processi da prigioniero.
C’è qualcosa che suona strano in queste due semplici constatazioni.
Certo: casi e imputazioni diverse, ordinamenti differenti; ma il medesimo istituto della carcerazione preventiva di un presunto innocente: che è tale, qualsiasi sia l’ipotesi accusatoria.
Carcerazione preventiva da riformare profondamente, sennò è barbarie.
In Egitto, ma prima ancora in Italia.