Da dove vengono la maggior parte di queste donne, bambini, ragazzi e uomini, che uniamo tutti nella sola parola “migranti”? La maggior parte, come sempre, proviene dall’Africa subsahariana. Da vastissime zone dove il deserto avanza, dove si muore, si fugge via per carestie, per fame e per la grande sete.
Sono migranti climatici, milioni di persone che non hanno più nulla se non una terra arsa, un sole implacabile che brucia ogni filo d’erba, dove non ci sono più animali e le loro esistenze sono vite che lottano contro la fame, la sete, la morte.
I dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati rivelano che su 68,5 milioni di persone costrette a fuggire dal proprio paese lo scorso anno solo poco più di 113 mila sono arrivate in Europa. Ci sono infatti i grandi flussi migratori interni ai paesi. Un solo dato, nel 2017 gli sfollati interni in quelle aree in rotta verso zone vivibili sono stati 30,6 milioni. Di questi, più della metà si sono mosse, il 61%, a causa di calamità naturali.
L’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom) definisce queste persone o gruppi di persone, colpiti negativamente dal cambiamento, improvviso o progressivo, dell’ambiente, “che sono costrette a abbandonare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano all’interno del proprio paese o all’estero”. Una migrazione forzata, in bilico tra instabilità geopolitica e ambientale, con effetti catastrofici sulla popolazione.
È il caso dei migranti provenienti da vari paesi del Sahel, a sud del deserto del Sahara. Aree fragilissime, con livelli di povertà elevatissimi. Se solo volessimo riflettere da cosa scappano queste donne e bimbi forse potremmo avere un sussulto di coscienza, dal momento che sprechiamo ogni giorno fiumi di acqua, che a innescare la desertificazione delle loro terre c’è il modello di sviluppo forsennato delle civiltà industriali e dello sfruttamento senza freni delle risorse naturali, imposto dal modello della crescita infinita.
Dai nostri quotidiani rissosi dibattiti mediatici, quando si parla di popolazioni che fuggono per sete, si dimentica di ricordare che l’Italia presenta il maggiore prelievo di acqua per uso potabile pro capite tra i 28 Paesi dell’Unione europea. Arriviamo a sperperare tra consumi veri e quelli dispersi, 220 litri di acqua al giorno a persona.
Una enormità. Su 9,5 miliardi di metri cubi d’acqua per uso potabile prelevati solo 8,3 sono immessi nelle reti comunali di distribuzione e solo 4,9 sono erogati agli utenti. In altri versi meno della metà del volume di acqua prelevata alla fonte non raggiunge gli utenti finali a causa delle dispersioni idriche dalle reti di adduzione e distribuzione.
Le motivazioni sono tante, dal disinteresse verso gli sprechi, dal fatto che non riteniamo importante mettere mano alla dispersione definita “fisiologica” per la grande espansione della rete idrica, alla rottura di tubi, allacci, ai sistemi e strutture obsolete, segnate da rattoppi, allacci non autorizzati, prelievi abusivi. I piani di miglioramento non hanno cambiato di molto la situazione.
A segnalare che i rattoppi non bastano è l’Istat: nel 2018 una famiglia italiana su dieci ha denunciato irregolarità nel servizio di erogazione dell’acqua, e il 65% delle segnalazioni parte dal Meridione. La regione più disagiata è la Calabria, dove il 39,6% delle famiglie lamenta questo problema.
Al nord solo il Friuli Venezia Giulia presenta livelli di efficienza di rete inferiori alla media nazionale, mentre al sud si raggiungono livelli di efficienza molto bassi, in particolare in Basilicata, Sardegna, Lazio e Sicilia. E, ancora, quattro famiglie su 10 che lamentano irregolarità nell’erogazione dell’acqua dichiarano che il problema si presenta durante tutto l’anno. Ora toccherà all’Unione Europea intervenire sull’Italia perché nei prossimi 10 anni saremo tenuti a ridurre drasticamente perdite e consumi inutili.
Sono gli “Obiettivi di Sostenibilità delle Nazioni Unite”, i cosiddetti Global Goals, numero 6 dell’Agenda 2030 “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie” e in particolare nel “target 6.4”: c’è l’indicazione ad “aumentare in modo sostanziale l’efficienza idrica in tutti i settori e assicurare prelievi e fornitura di acqua dolce per affrontare la scarsità d’acqua e ridurre in modo sostanziale il numero delle persone che soffrono di scarsità d’acqua”.
Ci riusciremo? Difficile scommetterci, dal momento che l’Istat riferisce che dal periodo 2010-2015, in Italia solo il 41,7% dei fiumi e dei laghi classificati raggiungono l’obiettivo di qualità ecologica. Tra inquinamento e dispersione dovemmo chiederci davvero se un giorno non saremo anche noi a dover fuggire dalla “grande sete”.