“Moi je veux mourir sur scene” (Io voglio morire sulla scena/sul palco) cantava Dalida – ed in questo verso c’è forse molto di più che la luce dei proiettori, davanti a cui la diva desiderava spegnarsi: quale morte ideale di una vita dedicata, sacrificata al palcoscenico. Nelle note agrodolci, della melodia discorde a metà tra supplizio e rivalsa, è denso tutto il sapore dell’amore per il lavoro. Il lavoro che è emblema dell’unione di corpo e spirito: quello manuale per cui occorre accrescere giorno dopo giorno la praticità dell’arguzia e quello della mente per cui sempre più s’ingegna l’intelletto.
ELOGIO DEL LAVORO IDENTITARIO
Ecco perché l’elogio al lavoro non può essere considerato unicamente da un punto di vista pratico: nei termini materiali di sostentamento; ecco perché il lavoro è tutt’altro che ascrivibile a categorie consumistiche. Non lo si può incasellare nell’alienante processo ripetitivo, simile all’impiego delle macchine – proprio perché coinvolge l’utilizzo (o più correttamente l’identità) dello spirito. Non si può infatti guardare al lavoro esclusivamente per fini utilitaristici, poiché il campo spirituale che gli è proprio lo libera ipso facto da tali condizioni.
LO SPIRITO CHE LAVORA È INALIENABILE
Il lavoro infatti è nato su termini e condizioni umane, e dunque spirituali e non può – non deve – in nessun modo assumerne di meccaniche o appunto “disumane”. Come può qualcosa che è creato da e per l’uomo, estraniarsi dalla sua foce e divenire entità a sé stante e che governa – rovesciando le parti ed in un rapporto di forza impari – l’uomo per cui esiste? Quando infatti il lavoro è considerato meramente mezzo, rischia di fagocitare chi l’ha generato ed asservirlo. Se invece non viene privato della sua parte spirituale – fondativa della natura umana – non può discostarsene e dunque nemmeno alienare l’uomo stesso.
L’ANIMA NEL LAVORO
Ecco che allora il rapporto tra uomo e lavoro può accordarsi armoniosamente nello scambio utile e al contempo sano e concorde con l’anima di chi lo esercita; che è presente a sé stessa, non alienata da sé – e pure si sacrifica per sé stessa con il lavoro e non per il lavoro a discapito di sé. Il sacrificio perde la sua connotazione di mancanza, di dolore, ma ne acquisisce un’altra dai toni assai più temperati per cui lo sforzo viene ripagato con la soddisfazione e l’appagamento dello spirito dell’individuo. Quello capace di richiamare gli altri proprio con la forza dello spirito che è forza-lavoro: lo stesso per cui morire sulla scena con “Le cœur ouvert tout en couleurs” (il cuore aperto, tutto colorato) significa “Mourir sans la moindre peine” (morire senza la minima pena).