“Tra coltura e cultura cambia solo una vocale, ma entrambe richiedono costanza e impegno e per trovare nutrimento devono piantare radici. La coltura nella terra, la cultura nelle coscienze”. Lo ha detto, in un’intervista a Repubblica, don Luigi Ciotti, secondo cui Palermo è “una città con cui ho un rapporto vivo, viscerale, che fa parte della mia anima, del mio paesaggio emotivo ed esistenziale”. Oggi che città si trova di fronte? “Una città più consapevole, capace anche di guardare nelle proprie ferite e contraddizioni, dunque capace di evolversi anche attraverso la memoria viva di quella stagione di sangue”.
La pandemia ha in qualche modo modificato l’allarme sociale sulle mafie? “Ha rischiato di far abbassare l’attenzione. Tanto più che già da molti anni i clan avevano scelto una strategia di basso profilo, contagiando un tessuto economico già caratterizzato da zone grigie o torbide. Per fortuna in questi quasi due anni c’è chi – come il procuratore capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, e altri – ha puntualmente richiamato l’attenzione sul rischio che le mafie traessero dalla pandemia occasione di arricchirsi e potenziarsi, come accaduto in altre emergenze e crisi del passato. Tra queste voci, c’era anche Libera”.
Quanto il potere delle mafie può incidere nella ripartenza? “Dipende dalle basi su cui si costruisce. Se si procede sulla base di logiche esclusivamente economiche, si ripropone un modello che ha rappresentato un terreno fertile per mafie e malaffare. La ripartenza presuppone un cambiamento di prospettiva culturale e politica, altrimenti sarà un ritorno a vie che hanno già mostrato di non portare a nulla di buono e costruttivo. Come dice papa Francesco, questo è un sistema ingiusto alla radice…”.