Affrontare i problemi sociali, per tutti gli ultimi governi, è stato sempre più difficile; prima di tutto perché era ed è diventato difficile capire quali degli interventi di politica macroeconomica erano da considerare “sociali” e in secondo luogo perché il modello di ridistribuzione della ricchezza non è stato più affrontato da nessun politico.
La classe operaia, che storicamente era sempre presente in ogni azione di governo, perché era quella che creava la maggiore ricchezza nazionale e che quindi meritava maggiore rispetto, ha avuto sempre meno interesse da parte della politica, soprattutto da parte dalla sinistra che, persi i valori fondanti e marxisti è andata sempre più verso un’aristocrazia intellettuale e d’élite che della classe operaia, pur seguitando a parlarne – invero sempre meno – non ne affrontava più i bisogni. Una sinistra autoreferenziale che ha preferito sempre più se stessa alla classe operaria e una sbagliata triplice alleanza sindacale altrettanto autoreferenziale e distratta, che non ha saputo più interpretare il cambiamento in atto e la deindustrializzazione che stava avvenendo in Italia.
Perso il senso del valore e del significato che rappresentava anche il solo pensiero sulla “classe operaia”, tutto il cosiddetto sociale è diventato paludoso. La spinta verso il capitalismo, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia ha fatto perdere di vista, ai politici, che di macroeconomia sapevano troppo poco, la vera questione del governo delle Nazioni. I politici si sono dedicati più ai modelli comunicativi che allo studio dei modelli di governo che si andavano prospettando. La questione sociale è diventata solo slogan elettoralistico. Nessuna riforma compiuta si è infatti prospettata o paventata, e quello che doveva essere il piano regolatore sociale, che solo alcuni intellettuali, tra i quali anche noi commentatori de “La Discussione”, volevano portare avanti, è rimasto del tutto inascoltato.
Si è intervenuti nel tempo qua e là a macchia di leopardo senza un vero e proprio progetto organico e senza neppure studiare i nuovi modelli psicoeconomici e socioeconomici che avrebbero aiutato a comprendere meglio che cosa stava succedendo nella società italiana.
Il ventennio “centrista-berlusconiano”, se così vogliamo chiamarlo, si è più preoccupato di sovrastare un’idea di comunismo – che in effetti si era ridotto a poco più che un lontano pensiero della sinistra radicale – piuttosto che a creare sviluppo socialmente sostenibile.
Anche tutti gli ultimi programmi elettorali, sulla questione sociale -che va dalla piena occupazione alla riduzione della conflittualità sociale derivante dai dislivelli di vita e di reddito che si vanno sempre più accentuando- hanno previsto unicamente interventi sporadici e non strutturati in una riforma globale.
Desideriamo riprendere per primi il discorso, dalle colonne de “La Discussione”, della necessità di elaborare un vero e proprio “Piano regolatore sociale” interministeriale, governativo e da proporre all’UE, per far capire al parlamento europeo, perché l’UE ha un suo parlamento, che la spesa per il “sociale”, all’interno di una riforma organica ed europea, deve avere necessariamente un peso specifico diverso rispetto al resto della spesa dei governi.
Vogliamo suggerire a questo governo, se possiamo, di prendere l’iniziativa sulla “questione sociale”, a livello europeo, ed inserirla nel contesto del discorso dei poco costruttivi punti percentuali di sforamento.
L’uomo e il suo benessere deve essere la centralità di ogni intervento.
Se l’UE è partita col piede sbagliato, perché ha pensato prima di tutto agli aspetti economici, ora l’Italia, quale Paese fondatore, deve porre rimedio, deve aprire cioè questo confronto sulla questione sociale.
Ricorderete tutti quando nella costituzione Europea non si sono voluti inserire i valori fondanti e laici del cristianesimo, ora ne stiamo pagando le conseguenze. E non confondiamo il cristianesimo con il potere della Chiesa, che pur col massimo rispetto, non può e non deve entrare in questo discorso politico.