Non c’è dubbio che, a Malta, ci sia stato un salto di qualità da parte dei paesi presenti nella valutazione dei fenomeni migratori, riconoscendo che essi vanno intesi in rapporto all’unicità delle frontiere dell’Unione europea e non più – come è stato finora in base al trattato di Dublino – come riferibili, in termini di responsabilità dell’accoglienza, al territorio nazionale ove approdano gli sbarchi.
Altrettanto importante – anche se collocato nella vaghezza di una dichiarazione di principi – il superamento della discriminante tra profughi politici da accogliere e quelli, la maggioranza, sospesi solo da ragioni economiche e, quindi, da respingere.
Resta tuttavia insoluto un aspetto non secondario delle migrazioni: quello dei profughi che approdano sulle nostre coste o su quelle di altri paesi rivieraschi del mediterraneo, come Malta, Grecia e Spagna, su una miriade di piccole imbarcazioni, tanto da sfuggire sia ai controlli, già labili, dei luoghi di partenza sia all’attenzione delle navi gestite da organizzazioni umanitarie.
Altrettanto problematico l’obiettivo della ripartizione dei migranti per quote fra tutti i paesi europei: finora già disponibili in pochi; del tutto indisponibili, invece, i governi dei paese dell’Est europeo, quelli già protagonisti di una politica di respingimento basata sulla militarizzazione dei confini.
Malta può quindi essere considerata, senza enfasi e senza minimalizzazioni, un buon punto di partenza, perfino superiore alle attese ma occorre ora tradurre le dichiarazioni di intenti in atti formali e soprattutto in comportamenti coerenti.
Sarebbe però un errore, per l’Italia, passare dalla stagione salviniana dei porti chiusi al suo contrario, tenendo presente intanto come sia ieri che oggi il vero problema sia rappresentato dal popolo delle barche e dei motoscafi veloci che arrivano fino alle nostre coste.
Quello dell’esodo di tante migliaia di persone è però non solo un problema di contenimenti, ma soprattutto un problema di politiche europee che siano capaci di favorire lo sviluppo delle economie dei paesi africani, che, oggi come oggi, sono dominati da corruzione profonda e da disastri ecologici e condizionati dalla strategia dolce di impossessamento delle loro economie da parte dei cinesi.