Lo sciopero subito indetto dai sindacati dei lavoratori dell’ITA – il residuo di compagnia aerea di bandiera, un’Alitalia senza ali – mi induce a tornare su alcune considerazioni qua e là qualche volte accennate sui mutamenti da me percepiti sul mondo del lavoro.
Considerazioni da cittadino puro e semplice: non ho alcuna competenza in materia, neppure mi occupo di lavoro nella mia professione di avvocato.
Quelle poche volte, però, che ho sfiorato in qualche mio scritto il problema ho percepito, tra la parte più di sinistra dei miei quaranta lettori, un senso di fastidio e di rigetto per il semplice annotare un mutato atteggiamento da parte soprattutto dei giovani.
Il mondo del lavoro, è ultroneo addirittura il semplice notarlo, ha moltissime sfaccettature.
L’elettronica ha mutato sostanzialmente il lavoro delle fabbriche. Non ha eliminato del tutto la catena di montaggio, ma certo oggi gli operai indossano più spesso il camice bianco di chi deve interagire con un robot, piuttosto che la tuta di Cipputi.
Si dovrà poi differenziare il lavoro in una grande fabbrica – dove il rapporto proprietà-lavoratore è mediato dai sindacati – da quello in realtà più concentrate, dove spesso prevale l’attaccamento verso l’azienda ed il rapporto è diretto. Quand’ero meno giovane lo avrei tacciato di paternalismo. Oggi lo vedo invece come una concorrenza verso un interesse comune. So che questo è un dibattito che anima contrapposte visioni e non mi ci addentro per manifesta incompetenza.
Credo, però, che nelle realtà più piccole la partecipazione del lavoratore sia maggiormente avvertita e che sia il lavoratore stesso a farsi carico dei problemi dell’imprenditore: specie se si vive un momento di crisi, allorché un imprenditore che veramente sia tale – che non sia, insomma un “scior padrun da li belli braghi bianchi” – avrà come primo pensiero la sorte dei suoi dipendenti.
Mi è capitato moltissime volte, occupandomi di soluzioni delle crisi di impresa, di vedere un’autentica sinergia tra le due parti; qualche volta addirittura riuscendo a risolvere la situazione critica, con la trasformazione dell’impresa in una società cooperativa, con la partecipazione delle maestranze. In effetti è proprio nel momento della crisi, che si percepisce meglio la valenza sociale del lavoro. Un’impresa che muore, trascina con sé tutto ciò che le gravita intorno ed ha riflessi anche sulla realtà del territorio in cui opera. Un’impresa che sacrifica i pur legittimi interessi dei creditori, ma che riesce a salvare così la sua funzione, ha una valenza economica e sociale ben maggiore delle perdite che la sua crisi hanno determinato.
Così che lo sciopero dei dipendenti ITA, da cui abbiamo preso le mosse, mi sembra più una posizione da pubblico impiego, che da lavoratore di un’impresa che dovrebbe essere in fase di decollo. Ma qui deve essere chiaro lo Stato: o l’ITA è sua e la mantiene in vita “costi quel che costi” (per citare Draghi governatore BCE) o deve essere lasciata al mercato ed i sindacati devono sapere di operare con un imprenditore che non riceverà i privilegi fruiti nei venti anni passati. Ovvio, però, che non conosco i dettagli del problema, quindi, mi taccio, annotando le contrapposte posizioni.
L’ITA, però, è un’impresa che opera in un contesto internazionale e con concorrenza feroce: ci piace a tutti viaggiare low-cost e credo che nessuno, quando viaggi su una di queste compagnie si preoccupi se agli steward e alle hostess vengano richiesti turni più pesanti di quelli della vecchia Alitalia. Così come nessuno, quando si compiace che l’oggetto ordinato da Amazon la sera prima dal salotto di casa, sia consegnato già la mattina successiva, si preoccupa se l’addetto al magazzino che ha confezionato il pacco sia riuscito ad andare in bagno o abbia dovuto attendere la fine del turno perché l’algoritmo che regola quel lavoro non prevedeva interruzioni.
Le considerazioni da queste ultime annotazioni sono tante: la concorrenza va tenuta presente, ma non può giustificare l’annullamento che alcune multinazionali richiedono ai propri dipendenti. Ma non si può non annotare che alcuni di questi sono disposti a sacrifici in cambio di un compenso maggiore. Si tratta anche nel 2021 di “cottimo” oppure è una necessità imposta dal mercato internazionale? Non saprei. Me la caverei col vecchio est modus in rebus, ma credo che non tutti ne percepiscano il significato.
Sciopero “da pubblico impiego”, ho annotato sopra. Perché quello pubblico è il settore da “posto fisso” ed intoccabile, che ha governato la società dal dopoguerra a questo inizio di millennio. È ancora possibile l’intangibilità e la carriera automatica, “per anzianità”? A me pare inconcepibile e spiego con tale intangibilità e con la conseguente mancanza di merito i grossi limiti della pubblica amministrazione.
Una considerazione finale. Il mondo del lavoro si sta chiedendo come fare per fermare le multinazionali che fuggono dall’Italia. Credo – e non è un mio pensiero originale, ma di fior di economisti – che l’Italia si dovrebbe chiedere perché queste imprese fuggono. E, soprattutto, perché nessuna investe da noi. Non è una fuga che si risolve con una legge che la vieta.
Ma probabilmente c’è da rivedere qualcosa: e le tradizioni italiane forze potrebbero offrire una soluzione originale e moderna. Magari contemperando le contrapposte esigenze proprio col romanissimo brocardo est modus in res.