Già prima della pandemia l’Unione europea si è data per il 2050 l’obiettivo di un impatto climatico
pari a 0. Oltre a regolamentazione e a sussidi, la tassazione è e sarà uno degli strumenti principali
dell’UE per perseguire i suoi obiettivi ambientali. D’altra parte, già dal 1999 in Italia abbiamo una
vera e propria carbon tax e sin dal 2005 in tutta l’UE è in piedi il sistema di cap and trade delle
emissioni inquinanti.
La tassazione ambientale si fonda sui principi pigouviani e sull’internalizzazione delle esternalità
negative provocate dai comportamenti umani: “chi inquina paga”. Il più recente esempio di questo
approccio è la plastic tax, sempre targata UE. I rappresentanti dei settori più esposti al
cambiamento hanno evidenziato i problemi di queste restrizioni, sia per la concorrenza con le
imprese extra-UE, sia per la perdita (riconversione?) di posti di lavoro. D’altra parte, è innegabile
che le risorse terrestri sono limitate, e questo era noto, ma i limiti sono improvvisamente diventati
più visibili con l’uscita dalla povertà di miliardi di persone che non avevano accesso al benessere, e
avevano quindi un impatto limitato sul consumo delle risorse. La concorrenza internazionale ha reso
evidente che lo sfruttamento delle risorse valica ormai i confini nazionali ed è così che europei,
americani e cinesi competono per le materie prime custodite in Africa, in Cile o in Grecia.
Beni globali
Aria e acqua sono beni globali e il loro sfruttamento in un continente produce conseguenze per tutti.
Inutile ridurre i consumi di combustibili fossili europei se quei consumi non fanno altro che
spostarsi altrove (cd. “carbon leakage”); con la beffa di trascinarsi dietro pezzi di industria
nazionale e posti di lavoro. Invece di ridurre l’inquinamento, negli ultimi decenni l’Europa lo ha
solo esportato, penalizzando la sua economia.
Per questo, il 14 luglio la Commissione UE ha proposto l’introduzione, dal 2026, di una carbon
border tax per cui le importazioni di determinati beni subirebbero un prelievo compensativo
commisurato all’emissioni rilasciate per la produzione fuori dall’UE, eliminando il vantaggio
competitivo extra-UE basato sulle esternalità ambientali. Il prelievo sarebbe ridotto a fronte di
misure di contenimento dell’inquinamento nel paese di produzione. Chiunque sia interessato a
vendere i suoi prodotti in Europa, pertanto, sarà indotto a ridurre le emissioni.
Negoziato a tutto campo
La proposta UE segue di pochi giorni i lavori del G20 nei quali le maggiori economie mondiali
hanno condiviso le linee guida di una riforma della fiscalità internazionale, in particolare per le
multinazionali, e la necessità di coordinamento delle politiche domestiche per l’abbattimento delle
emissioni. Come già avvenuto per la tassazione delle multinazionali l’UE si fa quindi battistrada
anche in ambito ambientale. Il contesto, tuttavia, è ancora più impegnativo, perché il
controinteressato non saranno solo gli Stati Uniti, ma anche Cina, India, Russia, i Paesi arabi e così
via, il tutto nel contesto delle regole WTO. È quindi naturale che il comunicato conclusivo del
G20, che pure mira a una riduzione delle emissioni, lasci, come lascia, ampi margini di ulteriore
trattativa. Prima ancora che con i partner di altri continenti, comunque, occorrerà trattare con gli
altri Paesi UE, giacché il peso della riforma non sarà uguale per tutti e già abbiamo avuto altre
esperienze di buoni propositi comunitari ostacolati dall’interno. Il tema è tuttavia di tale rilevanza,
anche per le istituzioni UE stesse, che è difficile pensare che non si arrivi davvero all’approvazione
del meccanismo.