Eran 333 erano giovani e forti. Poi entrati in Parlamento scoprirono che una politica fatta di slogan non aiutava a capire la realtà. Bisognava scegliere alleati di governo e soluzioni ai problemi. E cominciarono i dolori. Un po’ alla volta, un lento inesorabile esodo fece uscire dalle file del Movimento una quarantina tra deputati e senatori. Mai si poteva immaginare, però, che una decisione approvata sulla piattaforma Rousseau potesse essere sconfessata da un numero così vasto di parlamentari per i quali quella forma di democrazia diretta rappresenta una sorta di oracolo di Apollo.
Così per coloro che non hanno votato la fiducia a Draghi si è aperta la finestra della espulsione. Ma in tanti si oppongono per cavilli legali e anche in nome dell’unità del Movimento, un valore, quello dell’unità che pare in questo caso poco valido.
Stare insieme a tutti i costi non è sempre una scelta saggia. Nel caso dei 5Stelle ormai vale esattamente il contrario. Dividersi è necessario, anzi è una condizione pregiudiziale per poter continuare a fare politica per entrambe le anime dei grillini.
C’è una componente di intransigenti per i quali la coerenza con quello che avevano predicato in campagna elettorale conta più del confronto con i problemi concreti. Non vogliono abbandonare le comode certezze con cui hanno conquistato voti e sono ostili a qualsiasi ripensamento o maturazione. Non vogliono ammettere di aver commesso errori e oppongono al principio di realtà quello del più ottuso idealismo: “se i fatti smentiscono le idee peggio per i fatti”.
Questa componente dei 5 Stelle non vuol fare alcuno sforzo per capire in che mondo viviamo e per ammettere di aver sbagliato a ridurre l’analisi politica ad una sequela di No, di luoghi comuni, di invettive, di condanne sommarie dei “nemici”, di fastidiosa supponenza, di autoesaltazione della propria presunta e sedicente “purezza” e infallibilità. Nessuna politica può essere costruita sul dogmatismo, su frasi fatte senza sostrato di analisi, sulla divisione manichea del mondo tra chi si autodefinisce buono e gli altri che sarebbero tutti cattivi. Questo infantilismo politico è stata la benzina sul fuoco del populismo che ha rischiato di aprire all’Italia la via dell’inferno del sottosviluppo.
Gran parte dei 5 stelle, in modi controversi, hanno capito che bisognava cambiare, essere più flessibili e mandare in soffitta posizioni errate e impraticabili. Questa parte del Movimento ha iniziato un doloroso processo di maturazione, forse tardivo, ma comunque utile. È bene che continui e che lasci che i nostalgici della politica puerile e sterile vadano la loro strada.
Una separazione aiuterebbe a fare chiarezza ed eviterebbe questo spettacolo di decisioni prese e sconfessate nel volgere di 24 ore. Di Battista si metta a capo di una nuova formazione politica e gli altri che non vogliono seguire questa deriva si sbrighino a dotarsi di regole democratiche e ad avviare una fase “ricostituente” del Movimento basata sulla concretezza, la competenza, lo studio di soluzioni moderne e innovative ai problemi.
Grillo si assuma la responsabilità di dire con chiarezza ai suoi: basta, ora si cambia, per davvero. Se poi Giuseppe Conte vuole fare da levatrice alla nuova versione dei Cinque stelle ben venga.