Spero di avere capito male e mai come questa volta confido che qualcuno sappia opporre convincenti argomentazioni per demolire la mia ricostruzione del fatto che descriverò più avanti e dal quale traspare un modo di dispensare giustizia penale, ove – se la realtà fosse quella che ho creduto di intravvedere, restandone basito – si dimostrerebbe come, nel nostro Paese (e solo lì) le disposizioni dell’articolo 111 della Costituzione (ma prima ancora quelle dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che riguardano il giusto processo) sarebbero state, all’insaputa del Popolo Sovrano, progressivamente piegate al brocardo “Necessitas non habet legem, sed ipsa sibi facit legem” (“la necessità non conosce leggi, perché diventa legge essa stessa”).
Quanto sto per raccontare, già grave di per sé, diviene addirittura preoccupante per aver dovuto constatare come – in una materia così sensibile, quale è quella delle libertà fondamentali – l’affinarsi degli strumenti giuridici non vada sempre di pari passo con la loro idoneità a giustificare il dispensamento di misure non condivisibili dall’opinione pubblica, innanzitutto perché non conformi all’idea di giustizia che serpeggia fra i cittadini almeno dal XVIII secolo: da quando, cioè, la grazia di Dio come fonte del potere cedette il posto alla volontà dei governati, che venivano finalmente ad ottenere l’esercizio di una sovranità ripartita attraverso una divisione fra potere legislativo, giudiziario e amministrativo, con inevitabile entrata in conflitto fra questi ultimi.
Il quadro che ne è derivato tolse la potestà punitiva al Principe di turno, attribuendola in primo luogo al legislatore e dando ai giudici il compito di dispensarla al termine di un confronto fra accusa e difesa rispetto al quale i primi dovevano porsi in condizione di assoluta terzietà.
Temo, al contrario, che il nostro ordinamento stia conoscendo una fase nella quale la potestà punitiva dello Stato possa esercitarsi anche – se non prevalentemente – sulla base del principio di necessità, quale prima fonte del diritto idonea, come tale, a superare perfino le norme che il legislatore abbia in precedenza dettato.
Non riesco a spiegarmi altrimenti come sia possibile che un pubblico ministero possa, nel concludere le proprie indagini nei confronti di chicchessia, avanzare richiesta di “abbinamento” ad un preciso collegio giudicante da lui medesimo indicato.
Dall’esame del quadro normativo che si rinviene incrociando norme processuali e norme organizzative degli uffici giudiziari, la distribuzione dei processi dovrebbe infatti avvenire sulla base di criteri oggettivi e predeterminati: senza possibilità, per alcuna delle parti (avvocato difensore o pubblico ministero che sia), di dirigersi – direttamente o indirettamente – verso questo o quel giudice: il lettore comprenderà dunque la mia meraviglia nel dover constatare l’esistenza di una lettera di trasmissione di un fascicolo processuale ove il pubblico ministero chiedeva che il relativo giudizio fosse assegnato al Collegio X della sezione penale Y del Tribunale di Z.
Quel che mi preme però sottolineare è la circostanza giusta la quale non solo una simile richiesta sia stata avanzata, ma che sia stata addirittura accolta; o perlomeno così mi è sembrato di capire sulla base dei facta concludentia che hanno portato all’assegnazione del fascicolo esattamente al Collegio indicato dall’Accusa.
Il principale profilo sul quale intendo richiamare l’attenzione del lettore non è tuttavia quello afferente la patologia di un simile episodio, quanto piuttosto l’altro – sicuramente dominante rispetto al primo – della (almeno apparente) legittimità di un simile accadimento rispetto ai parametri normativi secondari che regolano, nel Tribunale di Z, l’assegnazione dei fascicoli processuali.
Le concrete modalità di assegnazione di un tale fascicolo si rinvengono infatti nella prassi vigente presso quell’innominato Tribunale, che sembra operare secondo regole che si traggono anche da circolari interne, ove si prevede esplicitamente che – pur senza adottare, quale criterio generale di assegnazione degli affari penali, il richiamato “abbinamento” fra pubblico ministero e Collegio giudicante – detto criterio continui ad essere seguito ove il pubblico ministero procedente avanzi un’espressa richiesta in tal senso.
Ma quali possono essere le ragioni che spingono una delle parti del processo a (tentare di) prescegliere il giudice che darà la sentenza? Sicuramente le più varie, ma – privilegiando la più ovvia – la ragione principale è quella che scaturisce dall’analisi delle decisioni in precedenza adottate da quello stesso giudice in casi analoghi; perché – se è vero che il nostro sistema non conosce, purtroppo, il principio del precedente vincolante – è altrettanto vero che la tendenze giurisprudenziali, spesso fra loro divergenti, sono il principale indicatore di ogni giudizio prognostico sull’esito di un processo: penale, civile, amministrativo o tributario che esso sia.
Diviene quindi evidente il rapporto fra prognosi, potere di indirizzare in conformità il fascicolo e principio di necessità, inteso come principio generale dell’ordinamento che presiede all’adozione di tutte le misure straordinarie che una determinata Autorità possa adottare – in presenza di situazioni emergenziali – per raggiungere il proprio fine.
Nessuno potrebbe d’altronde, ragionevolmente, negare che la giustizia sia da tempo caduta in una situazione emergenziale dalla quale difficilmente riuscirà a sollevarsi in tempi brevi.
Ma può bastare questa constatazione per giustificare prassi che appaiono in stridente contrasto con altri principi generali dell’ordinamento: primo fra tutti quello della parità delle armi fra le Parti di un processo?
Una simile domanda, lo riconosco, è poco più che retorica; merita però una risposta dalle istituzioni e, prima ancora, dai cittadini.