Le relazioni tra Cina e Giappone sono tornate a scricchiolare. Dopo un paio d’anni di cauta distensione, l’arrivo al potere di Sanae Takaichi, prima premier donna del Giappone e figura di punta dell’ala più nazionalista del Partito Liberal Democratico, ha riaperto in pochi giorni tutte le faglie storiche del rapporto con Pechino, a partire da Taiwan.
Il 7 novembre, durante una sessione parlamentare a Tokyo, rispondendo a una domanda su un’ipotetica crisi nello Stretto di Taiwan, Takaichi afferma che un attacco cinese all’isola, se comportasse “navi da guerra e uso della forza”, potrebbe configurare una “situazione che minaccia la sopravvivenza del Giappone”. In altre parole, una “minaccia esistenziale” che consentirebbe al Paese di ricorrere alla difesa collettiva sotto le leggi sulla sicurezza approvate nel 2015.
È una formulazione tecnicamente coerente con il quadro normativo giapponese, ma politicamente esplosiva. Per la prima volta nel dopoguerra, un premier collega esplicitamente un’eventuale crisi su Taiwan non solo agli interessi di sicurezza di Tokyo, ma alla possibilità concreta di un intervento militare giapponese a fianco degli Stati Uniti.
La risposta cinese: “linea rossa” superata e battaglia diplomatica all’ONU
Per Pechino, è il segnale che la nuova leader, erede politica di Shinzo Abe e più volte accusata di revisionismo storico, intende spingere il Giappone oltre la tradizionale “ambiguità strategica” sulla questione taiwanese.
Sul piano retorico, i toni sono ai limiti dell’invettiva: un console a Osaka scrive in un post poi rimosso che a chi “si immischia su Taiwan” andrebbe “tagliato il collo”, costringendo Tokyo a protestare formalmente.
Il Ministero degli Esteri definisce le parole della premier giapponese una “grave interferenza negli affari interni cinesi”, una violazione dell’accordo del 1972 che ha normalizzato le relazioni tra i due Paesi, e le presenta come una minaccia al sistema internazionale del dopoguerra. In una lettera al Segretario generale dell’ONU, l’ambasciatore cinese Fu Cong mette in dubbio l’idoneità del Giappone a un eventuale seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza.
Tokyo respinge l’idea di una “nuova linea rossa” eppure, nei fatti, Takaichi rifiuta di ritrattare, limitandosi a sottolineare il carattere “ipotesico” dello scenario descritto e ad assicurare che eviterà di ripetere lo stesso tipo di formulazioni in futuro.
Taiwan, Senkaku e la geografia del rischio
La crisi non si gioca solo sul piano delle parole. È radicata in una geografia che rende il Giappone inevitabilmente esposto a ciò che accade nello Stretto di Taiwan. Tra l’isola di Yonaguni, il punto più meridionale dell’arcipelago giapponese, e la costa orientale di Taiwan ci sono poco più di 100 chilometri di mare: nello stesso corridoio in cui si muovono le navi cinesi durante le esercitazioni intorno a Taiwan.
Più a nord, le isole Senkaku (Diaoyu per la Cina), amministrate da Tokyo ma rivendicate da Pechino, sono il luogo simbolico della disputa territoriale. Negli ultimi mesi la Guardia costiera cinese ha intensificato il numero di sortite nelle acque contigue, mentre le Forze di autodifesa giapponesi segnalano una crescita delle incursioni aeree e navali cinesi nei propri dintorni.
In questo contesto, le parole di Takaichi suonano a Pechino come la formalizzazione di un timore da tempo espresso in modo informale da vari esponenti giapponesi: che una crisi su Taiwan sia, per definizione, una crisi di sicurezza nazionale per il Giappone e per l’alleanza nippo-americana. Per la leadership cinese, che lega la propria legittimità politica alla “riunificazione” con Taiwan, qualsiasi suggerimento di intervento esterno assume i contorni di una sfida strategica diretta.
Interdipendenza economica e coercizione
Se sul piano securitario il confronto si accende, su quello economico la relazione resta tanto profonda quanto vulnerabile. Come ricordano le analisi di think tank come ISPI, la Cina è ancora il primo partner commerciale del Giappone: circa un quinto del commercio estero giapponese passa per l’asse Tokyo-Pechino, per un valore di oltre 300 miliardi di dollari l’anno. Catene del valore integrate legano l’industria manifatturiera dei due Paesi, soprattutto nei settori elettronica, componentistica, macchinari di precisione.
Proprio per questo, le ritorsioni economiche sono diventate la leva privilegiata di Pechino. Secondo Reuters, i rapporti bilaterali scendono “al livello più basso da anni”, con la Cina pronta a riconsiderare importazioni di prodotti ittici e carni giapponesi, nonché le proiezioni di film nipponici sul proprio territorio, mentre un’ondata di cancellazioni di voli e pacchetti turistici segue gli avvisi di viaggio cinesi e le preoccupazioni di Tokyo per la sicurezza dei propri cittadini sul territorio cinese.
A lungo termine, questo logoramento selettivo rischia di colpire settori simbolici per entrambe le economie: il turismo, l’industria culturale ma anche gli investimenti incrociati.
Opinione pubblica, nazionalismi e calcoli interni
Dietro le dichiarazioni ufficiali, il braccio di ferro tra Pechino e Tokyo è anche uno scontro di narrazioni nazionali. Per Takaichi, arrivata al potere dopo una complessa ristrutturazione della coalizione di governo e un progressivo spostamento a destra del Partito Liberal Democratico, la fermezza verso la Cina è parte integrante della propria identità politica.
In Cina, al contrario, la leadership del Partito comunista non può permettersi di apparire morbida sulla “questione di Taiwan”. I media ufficiali ritraggono Takaichi come una leader “militarista”, “revisionista” e “sinistra” nelle proprie intenzioni, evocando il fantasma dell’espansionismo nipponico degli anni Trenta e Quaranta. È un modo per consolidare il consenso interno e presentare ogni passo verso la riunificazione come difesa legittima contro un accerchiamento guidato da Stati Uniti e alleati.
Il ruolo degli Stati Uniti e il margine di manovra di Tokyo
In controluce, l’intera crisi è anche un test per l’alleanza nippo-americana e per la postura complessiva di Washington in Asia orientale. Il Giappone resta il pilastro della presenza militare statunitense nel Pacifico, ospitando basi chiave.
Per gli Stati Uniti, però, una retorica troppo esplicita sull’intervento giapponese potrebbe complicare la gestione della deterrenza, aumentando il rischio di incidenti e incomprensioni strategiche con la Cina. Non a caso, una parte dell’establishment giapponese, inclusi alcuni ex premier, ha criticato la scelta di Takaichi di rompere la consuetudine di non teorizzare scenari militari così dettagliati in pubblico.
Sushi diplomacy
Sul fronte taiwanese, se le istituzioni hanno mantenuto un tono prudente, ma fermo, nel denunciare la retorica aggressiva proveniente da Pechino, la popolazione ha risposto in un modo sorprendente e profondamente simbolico: attraverso il consumo e il marketing.
Nei giorni successivi alle dichiarazioni di Takaichi, alcune aziende hanno infatti iniziato a proporre prodotti con la sua immagine, tra cui una serie limitata di barrette di cioccolato realizzate da I-Mei Foods. Il fenomeno, rilanciato da testate internazionali come Business Standard, si inserisce in una più ampia tendenza definita da analisti e commentatori come “sushi diplomacy”, una forma di soft-power popolare in cui consumatori e imprese utilizzano cibo e marchi come strumenti di posizionamento culturale e politico.
Il meccanismo non è nuovo a Taiwan. Quando la Cina aumenta la pressione politica, diplomatica o militare sull’isola, emergono forme spontanee di sostegno verso Paesi considerati amici o partner strategici. In questo caso, la figura di Takaichi, percepita come durezza e chiarezza nei confronti della Cina, è diventata un simbolo, utilizzato dalle aziende per trasmettere un messaggio duplice: gratitudine verso il Giappone e affermazione dell’autonomia taiwanese.



