Sean “Diddy” Combs, icona dell’hip-hop e imprenditore miliardario, è stato condannato a quattro anni e due mesi di carcere da un tribunale federale di Manhattan per reati legati al trasporto a fini di prostituzione. Ma la vicenda giudiziaria è tutt’altro che conclusa: i suoi avvocati hanno già annunciato l’intenzione di presentare ricorso, mentre il rapper rischia ulteriori anni dietro le sbarre se dovessero emergere nuovi elementi. Il verdetto, pronunciato dal giudice Arun Subramanian, ha escluso le accuse più gravi di tratta di esseri umani e associazione a delinquere, ma ha comunque inflitto una pena significativa, accompagnata da una multa di 500 mila dollari e cinque anni di libertà vigilata. “Ha abusato del suo potere e del suo controllo sulle donne che affermava di amare”, ha dichiarato il giudice, sottolineando la gravità degli atti commessi. Durante il processo, durato otto settimane, sono emerse testimonianze scioccanti, tra cui quelle di Casandra Ventura e di una donna identificata come Jane, che hanno raccontato episodi di coercizione sessuale, violenza e umiliazione. Le cosiddette “freak offs”, maratone sessuali organizzate da Combs, sono state al centro dell’accusa. In aula, Diddy ha espresso pentimento, definendo “disgustoso” il proprio comportamento e parlando di un “reset spirituale” vissuto in carcere. I suoi sei figli hanno chiesto clemenza, descrivendolo come “un uomo cambiato”. Ma le parole non sono bastate a mitigare la sentenza. Ora, il team legale punta sull’appello e su una possibile grazia presidenziale, già richiesta formalmente a Donald Trump. Intanto, la carriera di Combs è in frantumi, e il suo impero musicale e imprenditoriale rischia di crollare sotto il peso delle accuse. La vicenda, oltre a scuotere l’industria dell’intrattenimento, apre un nuovo fronte nel dibattito americano su potere, celebrità e responsabilità.
