James Comey, ex direttore dell’FBI e figura centrale nell’indagine sul Russiagate, è stato formalmente incriminato da un gran giurì federale con l’accusa di falsa testimonianza e ostruzione alla giustizia. Le accuse si riferiscono alla sua deposizione del 2020 davanti alla Commissione Giustizia del Senato, in cui avrebbe mentito sull’autorizzazione alla diffusione di informazioni riservate. Comey ha respinto le accuse, dichiarandosi innocente in un video pubblicato su Instagram: “Non ho paura. Ho fiducia nel sistema giudiziario federale.” L’incriminazione arriva in un clima politico incandescente. Il presidente Donald Trump, che nel 2017 aveva licenziato Comey definendo l’indagine sul Russiagate una “caccia alle streghe”, ha celebrato la notizia come “un trionfo della giustizia”. Secondo osservatori indipendenti, la mossa riflette la volontà del presidente di colpire i suoi avversari storici, tra cui l’ex senatore Adam Schiff e la procuratrice Letitia James. A poche ore dall’annuncio, Trump ha firmato un ordine esecutivo che reintroduce la pena di morte nel Distretto di Columbia, dove era stata abolita. Il provvedimento, intitolato “Ripristino della pena di morte e protezione della sicurezza pubblica”, prevede l’applicazione della pena capitale per crimini gravi, inclusi gli omicidi di agenti federali. Il presidente ha dichiarato che “Washington deve tornare a essere la capitale della legge e dell’ordine.” L’ordine esecutivo ha suscitato reazioni contrastanti. Mentre i sostenitori lo vedono come una risposta decisa alla criminalità, le opposizioni parlano di deriva autoritaria e di strumentalizzazione della giustizia. Intanto, il caso Comey si prepara a entrare nel vivo: l’udienza preliminare è fissata per il 9 ottobre ad Alexandria, in Virginia.
