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Civita Di Russo: “‘Indomita’ come mia nonna. Così ho scelto di non avere paura”

Dai processi di Capaci e via D’Amelio al libro-testimonianza: l’avvocato che ha vissuto sotto scorta racconta la solitudine, il coraggio e la lezione ricevuta da bambina
lunedì, 15 Settembre 2025
3 minuti di lettura

Il suo nome è legato ai processi più drammatici della storia recente: le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli attentati del ’93 a Firenze e Roma. Per anni ha vissuto sotto scorta, conoscendo la paura negli occhi degli imputati, dei collaboratori di giustizia, dei magistrati. Oggi Civita Di Russo è Vicecapo di Gabinetto della Regione Lazio, accanto al Presidente Francesco Rocca. E porta con sé, dentro un ruolo istituzionale, la stessa tensione etica che ha animato la sua carriera di avvocato penalista.

Il suo libro, ‘Indomita. La mia battaglia contro le mafie’ (Castelvecchi Editore, con la prefazione di Antonio Coluccia), non è solo un memoir, ma un testimone civile. “Il titolo non l’ho scelto io”, racconta sorridendo. “Avevo mille dubbi e alla fine fu il mio editore a insistere: “Civita, tu sei indomita. Non esiste parola migliore”. All’inizio mi sembrò esagerato. Poi ho capito che in quella definizione c’era la mia storia, il mio carattere, perfino la mia testardaggine. Ora persino gli amici mi chiamano così, un po’ scherzando, un po’ sul serio.

Le aule bunker e l’umanità dietro i verbali

Di Russo ha trascorso oltre vent’anni dentro aule di giustizia che hanno segnato la memoria del Paese. Ha difeso collaboratori e testimoni, partecipato a interrogatori e sopralluoghi in territori infestati dalla mafia. “Il diritto non è freddo”, dice. “Il mio maestro mi ripeteva sempre: ‘Il diritto è buon senso’. Le aule, sì, erano fredde, i racconti spesso insopportabili. Ma da quelle stesse aule è cominciata la lotta alla mafia che ci ha portato fin qui. Da quei verbali, da quelle deposizioni laceranti, è uscita tanta umanità, tanta sofferenza ma anche la possibilità di capire e reagire”.

Rompere i patti di sangue

Quando le si chiede cosa significhi difendere chi rompe un patto di sangue, abbassa lo sguardo, come se rivedesse quei volti. “Il patto lo rompono loro, non io. Io ascolto, e ascoltare non è facile: ti arrivano addosso storie terribili, che vorresti non sapere. Ma è un dovere. Quanto costa a loro? Tutto. Un calabrese che decide di collaborare deve spesso tradire non un complice, ma un fratello o un cugino. Per questo è ancora più difficile. Eppure, in tanti ho visto la paura trasformarsi in coraggio. Non ci si nasce coraggiosi, lo si diventa per necessità: per non restare bloccati”.

La solitudine di chi serve lo Stato

In ‘Indomita’ parla spesso di solitudine. “È il mestiere stesso che la porta con sé. Sei sola quando ascolti, sei sola davanti ai magistrati, sei sola con la tua coscienza quando accetti di assistere persone che hanno commesso orrori. Ma non puoi fare questo lavoro senza accettare la solitudine. È la stessa condizione di tanti servitori dello Stato che non possono raccontare quello che fanno, che vivono nell’ombra per difendere tutti noi”. La solitudine l’ha accompagnata anche nei suoi anni da Presidente nazionale dell’Associazione Liberi Avvocati, in prima linea per garantire difesa a chi non poteva permettersela, e nelle tante ore trascorse a insegnare ai ragazzi nelle scuole o agli agenti delle forze dell’ordine a Spoleto, preparando chi avrebbe gestito collaboratori di giustizia.

L’Italia e le sue ferite

Quando si parla delle stragi e delle rimozioni collettive, il tono diventa fermo. “Non accetto l’idea che l’Italia abbia voluto dimenticare. L’Italia è un Paese coraggioso, fatto di cittadini che hanno rischiato per portare avanti le proprie idee. Certo, ci sono stati uomini dello Stato che hanno tradito. Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa: tutti sapevano di essere stati lasciati soli. Ma questo non significa che la nazione volesse rimuovere: significa che il male esiste sempre, accanto al bene. E non dobbiamo mai smettere di riconoscerlo”.

Dai processi alle istituzioni

Oggi, dalla sua scrivania alla Regione Lazio, Di Russo porta con sé la stessa determinazione. “I valori non cambiano: verità, giustizia, amore per le persone. Una mia amica, vedendomi in questo ruolo, mi ha chiesto: ‘Ma chi te lo fa fare?’. Mi sono indignata: che domanda è? Noi dobbiamo essere esempio. Se non ci mettiamo in gioco noi, come possiamo sperare in un Paese migliore?.

La lezione ai giovani

Alle nuove generazioni consegna un messaggio chiaro: “Osare. Sognare. Crederci. Io vengo da una piccola città di provincia, e il mio sogno era diventare avvocato. Ce l’ho fatta con tenacia e resilienza. È un lavoro che resta, per me, la professione più bella del mondo”.

Le radici e i grazie

Nel libro c’è un capitolo dedicato alla nonna Nannina, “una donna che oggi avrebbe avuto 124 anni. A tredici anni mi disse: ‘Civita, fai la tua strada, guadagna i tuoi soldi, sii indipendente. Perché se un giorno l’uomo con cui starai non si comporterà bene, dovrai avere la forza di lasciarlo. E la forza ti verrà dalla tua autonomia economica’. Ho seguito quel consiglio per tutta la vita”. Accanto alla nonna, una cara amica diventata magistrato: “Abbiamo condiviso il sogno, ci siamo sostenute. A lei devo molto”.

La coscienza civile

Alla fine, più ancora della forza del diritto, Di Russo lascia un messaggio di coscienza: “Serve una coscienza civile indomabile. È l’unica strada per fare dell’Italia il Paese più bello del mondo. Non basta il coraggio individuale: occorre che tutti, giovani soprattutto, si assumano la responsabilità di cambiare”.

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