In un contesto di guerra civile che ha già causato oltre 12 milioni di sfollati e decine di migliaia di morti, la coalizione sudanese guidata dalle Forze di Supporto Rapido (RSF) ha annunciato la formazione di un governo parallelo nelle aree sotto il proprio controllo. La dichiarazione è arrivata il 15 aprile, in coincidenza con il secondo anniversario dell’inizio del conflitto. La nuova entità politica, denominata Consiglio di Direzione dell’Alleanza Fondativa del Sudan (TASIS), include gruppi armati, partiti politici e organizzazioni civili riunitisi a Nairobi per formalizzare l’iniziativa. Il leader delle RSF, Mohamed Hamdan Dagalo, ha proclamato la nascita di un “governo di pace e unità”, promettendo una nuova valuta e documenti d’identità alternativi. La mossa rappresenta una sfida al governo militare di Port Sudan, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, che ha recentemente emendato la costituzione per rafforzare il proprio potere e prolungare la transizione di altri 39 mesi. Le RSF, dopo aver perso Khartoum, si sono consolidate nel Darfur, dove controllano gran parte del territorio e mirano alla conquista di Al-Fashir, capoluogo del Darfur Settentrionale. La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione. Il G7 e diverse organizzazioni umanitarie hanno chiesto un “cessate il fuoco immediato e permanente”, temendo uno scenario simile alla Libia, con due governi rivali e una frammentazione del paese. Nonostante le promesse di democrazia e inclusione, le RSF sono accusate da Amnesty International di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui violenza sessuale sistematica e attacchi contro civili. Il nuovo primo ministro del governo parallelo, Mohammed Hassan Osman al-Ta’ishi, ha dichiarato l’intenzione di “costruire un Sudan laico e decentralizzato”, ma gli analisti restano scettici sulla legittimità e sostenibilità del progetto. Con due entità governative contrapposte e una popolazione allo stremo, il Sudan rischia una frattura irreversibile.
