La Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza destinata a lasciare un segno profondo nel rapporto tra poteri dello Stato. Con una decisione votata 6 a 3, la maggioranza conservatrice ha stabilito che i tribunali federali inferiori non possono più bloccare a livello nazionale gli ordini esecutivi del presidente, aprendo così la strada all’entrata in vigore del controverso decreto di Donald Trump che limita la cittadinanza per nascita. L’ordine, firmato il primo giorno del suo ritorno alla Casa Bianca, prevede che i bambini nati sul suolo americano non ottengano automaticamente la cittadinanza se i genitori non hanno almeno uno status legale permanente. Una misura che sovverte l’interpretazione tradizionale del XIV emendamento, da sempre considerato il fondamento dello ius soli negli Stati Uniti. La Corte non si è espressa sul merito costituzionale della norma, ma ha stabilito che i giudici distrettuali non possono più emettere ingiunzioni universali valide su tutto il territorio nazionale. Una decisione che, secondo i critici, amplia in modo significativo il potere esecutivo, riducendo il controllo giudiziario. Trump ha esultato definendo la sentenza una “vittoria enorme” e un colpo alla “bufala della cittadinanza automatica”. Ma le reazioni non si sono fatte attendere: la giudice Sonia Sotomayor, in dissenso, ha scritto che “lo Stato di diritto non è scontato” e che la Corte “abdica al suo ruolo vitale”. Secondo gli esperti, la decisione potrebbe avere implicazioni ben oltre l’immigrazione, influenzando anche futuri decreti su ambiente, diritti civili e sanità. Intanto, nei 22 Stati a guida democratica, le cause contro l’ordine presidenziale proseguono, ma il terreno legale si è fatto decisamente più scivoloso.