Se l’Italia avesse avuto una adeguata industria di produzione di mascherine, dal 31 gennaio, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitario, avrebbe potuto predisporre un piano urgente per produrne di più, darle, da subito, a medici e infermieri e, nel giro di una settimana, distribuirle a tutta la popolazione.
Rendendo obbligatorio per tutti l’uso di mascherine la diffusione dei contagi sarebbe stata fortemente rallentata, con le conseguenze che è facile immaginare: minore pressione sugli ospedali, maggiori possibilità di gestire le emergenze e di salvare vite umane.
A volte ci vuole poco per impedire ad una crisi seria di diventare una tragedia.
La lezione delle mascherine ha una portata simbolica enorme e fa emergere una lacuna gravissima della nostra economia e politica: l’Italia non ha una politica industriale, non ha deciso su quali settori puntare e come farlo. Da questo punto di vista siamo il Paese più anarchico e meno lungimirante tra quelli ad economia di mercato e senza rigido controllo statale.
In pieno boom economico, all’inizio degli anni Sessanta, con i primi governi di centro-sinistra, si era posto il problema di realizzare una Programmazione economica che senza essere dirigista indicasse le linee di sviluppo su cui l’Italia doveva puntare. Era una saggia idea che presto fu accantonata commettendo un errore gravissimo
Nel corso degli ultimi 60 anni nessun governo si è mai posto il problema di fare delle scelte di politica industriale che fossero coerenti. Fino a quando è esistito l’IRI, un minimo coordinamento delle attività dello Stato-imprenditore veniva realizzato. Da quando, all’inizio degli anni Novanta, si è scelta la via delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni tutto è stato lasciato al caso.
E non ci si è neanche preoccupati di assicurare al controllo italiano, statale o non, settori strategici.
La vicenda più eclatante è stata la privatizzazione di Telecom Italia, gestita con una superficialità tale da indebolire un colosso di dimensioni europee, lasciando in mani straniere il controllo di un settore strategico.
Una follia assoluta.
I Governi si sono limitati a introdurre norme difensive di ultima istanza: la golden share in alcune aziende partecipate, che dà allo Stato un potere di decisione strategica a prescindere dalle azioni che detiene; il golden power che conferisce al governo poteri di interdizione, indirizzo e orientamento nelle transazioni in settori quali la difesa e la sicurezza nazionale, e in ambiti di attività definiti di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Tutto questo è necessario per avere una linea di difesa estrema degli interessi nazionali ma non è una politica industriale. Ad esempio, nel settore della salute l’Italia non può dipendere da altri Paesi: in caso di pandemie estreme ogni Paese pensa a se stesso. E invece l’Italia dovrebbe avere una relativa autosufficienza dove è ragionevolmente possibile che questo si realizzi, come le mascherine e le apparecchiature per le terapie salva-vita, ad esempio.
Cosa fare? Il Governo dovrebbe mettere al lavoro le menti migliori di cui l’Italia dispone nel settore dell’economia industriale: docenti universitari, imprenditori di successo, esperti di consulenza strategica e chiedere loro di elaborare un piano che identifichi i punti di forza e di debolezza del Sistema Italia e delinei scenari di scelte coerenti da fare a cominciare dalla “ricostruzione” che sarà necessaria dopo i disastri provocati da questa recessione mondiale.
Non perdiamo altro tempo.