“Cominciamo a dire che c’è una grave mancanza di dispositivi di protezione individuale per i medici di famiglia, ed io di eroi morti non ne voglio più. Sono 30 i decessi di camici bianchi registrati. Più della metà di questi erano medici di famiglia. Già partiamo male, quindi…”. Lunga, rigorosa con più di una nota di sfiducia verso la carenza di sistemi di protezione per i medici e “i modelli” organizzativi delle Regioni, delle Asl e ospedali che seguendo ciascuno un protocollo si è arrivati ad una situazione di una difficoltà enorme.
Il tutto sembra tenersi in piedi grazie grazie al senso di dovere e sacrificio del personale sanitario, mentre i cosiddetti modelli organizzativi non hanno tenuto conto delle troppe emergenze, come nel caso di pazienti che vedono nei medici di famiglia l’unico punto di riferimento, oppure del personale sanitario più esposto, come gli operatori delle squadre del 118. Da questo scenario di pesanti difficoltà arrivano le prese di posizione del segretario generale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), Silvestro Scotti, e di Mario Balzanelli, presidente nazionale della Società Italiana Sistema 118. Entrambi per versanti diversi arrivano ad analisi che coincidono nel mettere in discussione i modelli organizzativi finora messi in campo per tutelare e prendere in carico i malati. Qualcosa non funziona tanto che a pagarne le conseguenze oltre ai malati è il personale sanitario.
A raccogliere le forti preoccupazioni così come le possibile soluzione è il Quotidiano Sanità. Il presidente della Fimmg, Silvestro Scotti entra subito in argomento e osserva sconsolato: “Io vado a casa del paziente, ma non posso fare terapia né tamponi”, dice il segretario dei medici di famiglia. Stesso discorso per il presidente della Società italiana sistema 118, Balzanelli: “Intervenire con il ricovero e l’inizio delle cure quando il paziente è già caduto in una condizione di grave insufficienza respiratoria acuta è assolutamente inappropriato”. Parole che cadono in uno scenario che di giorno in giorno si fa più difficile: in Italia il 27 marzo, definiti il “giorno più nero dell’Italia”, con 969 morti in 24 ore che che hanno fanno salire il totale a 9.134, coincide con un record che solo un mese fa era impensabile e che dà la dimensione della catastrofe: il numero complessivo dei contagiati nel nostro paese ha superato quello della Cina. 86.498 sono gli italiani che hanno contratto il virus mentre i cinesi sono 81.897; ma il gigante asiatico ha un miliardo e mezzo d’abitanti e noi siamo solo 60 milioni.
Di questi decessi, il 61,2% si concentra nella sola regione Lombardia, la regione più colpita dall’epidemia, con quasi 31mila persone contagiate (di cui 54mila ancora positive), 9.700 pazienti affetti ricoverati in ospedale, dei quali 1.194 in terapia intensiva, che da soli costituiscono il 43% del totale dei ricoveri Covid-19 in Italia.
Tutto questo in un contesto dove Governo e Regioni hanno deciso chiusure, blocchi, per imprese e famiglie, fino agli incrementi di posti letto per le terapie intensive ed i reparti di penumologia ed infettivologia. Uno scenario, tuttavia, che cambia quotidianamente in una altalena di sforzi, di dati, di numero di morti che crescono, di guariti e di nuovi contagi. In prima linea ad affrontare questo inferno ci sono i medici e tra questi i più esposti quelli di famiglia e gli ospedalieri. Le parole di Scotti e Balzanelli, raccolte da Giovanni Rodriguez, sono una analisi chiara di ciò che non sta andando bene.
Il dito è puntato contro i modelli organizzativi che riguardano un po’ tutta l’Italia dove ogni Regione è in affanno, dove le criticità diventano sempre più evidenti. Per Scotti, ad esempio, quanto accade in Lombardia “è anche dovuto anche al modello lombardo di medicina del territorio. A differenza del Veneto, dove questo è molto strutturato in distretti, territorio e servizi di prevenzione, in Lombardia si è puntato da tempo su un modello diverso che era stato strutturato sulla cronicità con le cooperative lombarde della medicina generale, che oggi non reggono rispetto ad un territorio che richiede servizi per acuti e modelli organizzativi utili nella prevenzione e nel contenimento e non hanno gli strumenti per convertirsi ed essere di supporto in questa situazione ai medici di medicina generale”.
“C’è un completo scollamento”, osserva il segretario della Fimmg, “tra struttura territoriale e Aziende, e quindi il sistema si concentra negli ospedali con tutti i problemi che stanno venendo fuori”. Poi c’e il grave irrisolto problema legato alla “tempistica della diagnosi”. Una questione che diventa drammatica per chi in isolamento avverte i sintomi della malattia che potrebbero evolvere in modo esponenziale. “L’identificazione rapida legata al tampone, e non a criteri epidemiologici, rallenta la diagnosi”, fa presente Scotti. Ma quello che è più rilevante, osserva l’esponente della Fimmg, è la carenza di linee guida che consentano ai medici di famiglia di poter intervenire con protocolli terapeutici condivisi.
“Io vado a casa del paziente, ma non posso fare terapia né tamponi. Il tutto”, sottolinea Scotti, “in assenza di dispositivi di protezione individuale adeguati a proteggermi. Spiegatemi a questo punto cosa vado a fare nelle case, a parte per assistere alla morte dei miei pazienti o per azioni palliative e per infettarmi?”.
C’è il problema dei tempi – che ormai appaiono ingestibili – della presa in carico dei pazienti in isolamento a quando la malattia progredisce. A spiegare come il modello del ritardare la presa in carico del paziente e concentrare tutti i malati in ospedale si stia rivelando un danno è Mario Balzanelli, presidente nazionale della Società Italiana Sistema 118 (Sis 118): “La linea strategica sanitaria nazionale indica l’ospedalizzazione alla comparsa di affanno (dispnea) e questo per evitare l’ospedalizzazione di un numero troppo alto di pazienti con sintomatologia più lieve. Ma per questi ultimi, che restano a casa in isolamento e che nella maggior parte dei casi vengono trattati quasi esclusivamente con paracetamolo, c’è il rischio crescente di un progressivo peggioramento della funzionalità polmonare con la rincorsa successiva al ricovero quando magari diventa troppo tardi o comunque con condizioni cliniche molto gravi”.
“Quando compare la dispnea, infatti, il danno, strutturale e funzionale, del polmone è assai avanzato”, fa presente Balzanelli, “Subito dopo la comparsa di dispnea, come verificato sistematicamente nella nostra esperienza quotidiana, l’insufficienza respiratoria acuta tende a precipitare in tempi rapidissimi, imponendo non solo ossigenoterapia ad alti flussi ma, molto spesso, troppo spesso, il ricovero nelle unità operative di terapia intensiva, con intubazione del paziente, coma farmacologico, e ventilazione meccanica invasiva e con netto peggioramento della prognosi. Intervenire con il ricovero e l’inizio delle cure quando il paziente sia già caduto in una condizione di grave insufficienza respiratoria acuta è, a nostro parere, assolutamente inappropriato, e configura, sul piano clinico, un vero e proprio errore di programmazione e di gestione dell’epidemia”.
A fare da eco al presidente nazionale della Società Italiana Sistema 118, contro un modello di gestione di presa in carico dei pazienti incentrato solo sui ricoveri sono stati anche i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Parliamo di una struttura all’avanguardia con 48 posti di terapia intensiva, al centro della battaglia contro il virus nel bergamasco. In una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery, scrivono i medici: “A Bergamo l’epidemia è fuori controllo.
Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo già oltre il punto del collasso: 300 letti su 900 sono occupati da malati di Covid-19. Più del 70% dei posti in terapia intensiva sono riservati ai malati gravi di Covid-19 che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere”.
“Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19”, proseguono i 13 medici del Papa Giovanni XXIII nella lettera denuncia, “poiché si riempiono in maniera sempre più veloce di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti.
Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza. Alcuni rischiano di morire, compresi i più giovani, aumentando ulteriormente le difficoltà e lo stress di quelli in prima linea”. Ma a questo punto, tra modelli di intervento, messi in discussione, dubbi e allarmi di focolai in ogni zona d’Italia, cosa propongono i medici, per cercare di bloccare contagi, malati e decessi? Una proposta è legata alla rapidità degli interventi e sulla dotazione tecnologica.
“Cure a domicilio e cliniche mobili per evitare spostamenti non necessari e allentare la pressione sugli ospedali”, scrivono i medici del Papa Giovanni XXIII, “Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina.
Un tale approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti di protezione”.
“Negli ospedali”, concludono, “si deve dare priorità alla protezione del personale medico. Non si possono fare compromessi sui protocolli. Le misure per prevenire il contagio devono essere implementate in maniera consistente”. Dalla città di Bergamo che rimane la più colpita per numero di contagi, di decessi, non sono solo i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII a parlare di ciò che non va.
A scendere in campo è il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, durante una videochiamata con il sindaco di Bari e il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, ha lanciato un drammatico allarme: “Oggi qui non siamo in grado di portare tutti in ospedale e quindi succede che molte persone muoiono a casa, molte più di quante vengano contabilizzate ogni giorno per il virus. Ho fatto una ricerca mettendo insieme il dato del mio Comune e di altri 12 con i dati dell’anagrafe sui morti e il rapporto è di quattro a uno: per ogni persona che risulta deceduta con diagnosi di Coronavirus ce ne sono altre tre per le quali questo non è accertato ma che muoiono di polmonite”.
Cambi di rotta però non se ne intravedono. Ad oggi, anche seguendo gli annunci giornalieri della Protezione Civile, rivela QuiSanità, “sull’acquisto di respiratori e sull’ampliamento delle dotazioni di posti letto di terapia intensiva, sembra che l’approccio all’epidemia continui a concentrarsi sulla presa in carico ospedaliera che dovrebbe essere l’ultima ratio per diversi motivi: attesa di un aggravamento del quadro clinico dei pazienti, mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario e possibile insorgere di focolai ospedalieri.
Il contenimento della curva epidemica dovuto al lockdown nazionale sembra al momento funzionare. Ma un approccio unicamente ospedaliero potrebbe risultare ancora più pericoloso al Sud, dove molte regioni non possono di certo contare su quelle dotazioni strutturali che caratterizzano Lombardia, Veneto o Emilia Romagna”. Infine, qualcosa emerge oltre alle terapie intensive, negli ospedali, infatti, si attua dice possibile una sorta di protocollo terapeutico sperimentale con l’utilizzazione di diversi prodotti off label già usati in Cina e ormai in molte altri Paesi toccati dall’epidemia.
Ma sul territorio non c’è nulla di tutto questo. Le uniche indicazioni diramate fino ad oggi per l’assistenza domiciliare ai pazienti Covid sono quelle dell’Istituto superiore sanità, che però si limitano nel dare “Indicazioni ad interim per l’effettuazione dell’isolamento e dell’assistenza sanitaria domiciliare nell’attuale contesto Covid-19”, quindi sull’osservazione dei sintomi per i pazienti in isolamento e sull’attivazione del sistema di emergenza quando la situazione clinica degenera e si rende necessario il ricovero ospedaliero.
Infine il capitolo, di speranza di cura farmacologica, per Covid 19, finirà non c’è nulla, ma ci si affida a farmaci usati per altre patologie, che sono presenti sul mercato.
Diversi medici di famiglia iniziano a scambiarsi tra loro protocolli di terapia domiciliare che includono la somministrazione di clorochina e idrossiclorochina che, bloccando l’endocitosi cellulare, che potrebbe ridurre l’ingresso del virus. Non a caso sembra che sia ormai quasi introvabile in farmacia il Plaquenil. Il tutto in attesa del prossimo bollettino della Protezione civile, del picco da superare, e se il distanziamento sociale del stare a casa, funzionerà.