lunedì, 16 Dicembre, 2024
Economia

“Proprietà” della Banca d’Italia. Avviare una riflessione

Le più o meno recenti esperienze incontrate dal sistema finanziario italiano  – nel calcolare i danni provocati ai risparmiatori dalla crisi delle banche venete o da quella dell’istituto bancario senese rimasto “in pancia” al Ministero dell’Economia – ci inducono a riflettere sulla opportunità di modificare l’attuale assetto proprietario del capitale della Banca d’Italia, perchè detenuto da quegli stessi Enti su cui la Medesima deve esercitare la vigilanza, così cadendo nell’potesi di conflitto d’interessi prevista dall’art. 6 della L. 241/1990, visto che il controllore (appunto Bankitalia) è posseduto dal controllato (le grandi banche del sistema) e si sottrae  – come tale – anche alla maggior parte dei poteri pubblicistici implicitamente attribuiti dalla Costituzione al Ministero dell’Economia, quale necessario titolare di quei poteri.

Quest’ultimo, a sua volta, ha invece delegato alla Prima ogni effettiva attività di vigilanza sul sistema bancario, facendo così venir meno le caratteristiche fondamentali di quell’ordinamento sezionale del credito che aveva caratterizzato la disciplina dei controlli sull’impiego del risparmio collettivo fino all’approvazione del Testo Unico Bancario del 1993.

Ancora quell’atto normativo possedeva però una propria coerenza pubblicistica; se non fosse accaduto che le disposizioni ivi contenute (soprattutto quelle del titolo V, dedicato soggetti operanti nel settore finanziario) fossero successivamente stravolte ad opera del Decreto legislativo 13 agosto 2010 n. 141, sulla base del quale sono state progressivamente introdotte le tecniche informali di regolazione (quali la Moral Suasion ed altri strumenti di Soft Law) che il legislatore nazionale considerava allora essenziali per adeguare il sistema amministrativo italiano, nel suo complesso, all’ordinamento dell’Unione Europea e che si spinse fino all’introduzione di queste tecniche nel sistema di regolazione di tutti i  contratti pubblici (Decreto legislativo  18 aprile 2016 n. 50).

Mentre però l’errore di introdurre simili strumenti nella contrattazione per acquisire beni e servizi fu riparato con l’adozione del Decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36 – che ha finalmente abbandonato la disastrosa esperienza della Soft Law, in favore di un più coerente sistema di principi generali (quali quello del conseguimento del risultato, della reciproca fiducia fra stazione appaltante ed appaltatore, nonché dell’accesso al mercato, favorendo l’imparzialità e la trasparenza delle scelte operate dall’Amministrazione) –  non altrettanto è avvenuto a proposito della regolazione del settore creditizio e, più in generale, finanziario. Questa differente evoluzione dell’innesto di strumenti di Common Law nel sistema amministrativo italiano è spiegabile secondo la regola politica del gioco delle forze: infatti, mentre l’attività contrattuale delle amministrazioni è affidata alla vigilanza dell’Autorità anticorruzione, i cui compiti sono estremamente limitati, non altrettanto può dirsi delle attività creditizie sulle quali vigila la Banca d’Italia, che invece svolge una pluralità di funzioni – alcune  di vitale importanza per l’economia del Paese – tra cui la politica monetaria, il controllo dell’inflazione, la stabilità finanziaria e, Last but not least, la vigilanza sul sistema bancario: la sua struttura proprietaria, tuttavia, ha da tempo suscitato interrogativi e dibattiti, soprattutto per la peculiarità di essere detenuta – almeno in gran parte – dagli stessi istituti di credito che dovrebbe sorvegliare.

Sembra dunque giunto il momento di affrontare la questione della proprietà del suo capitale azionario, esaminando le opportunità e le implicazioni di una modifica dell’assetto proprietario della Banca d’Italia alla luce del potenziale conflitto d’interessi cui si è accennato in apertura, perché Essa appare  – anche agli occhi dell’Europa – come una banca centrale “peculiare”, non essendo  la sua  proprietà interamente statale.

Tale situazione genera, almeno potenzialmente, un conflitto d’interessi in quanto i soggetti controllati (le banche private) sono allo stesso tempo controllori (azionisti della Banca d’Italia) e un simile assetto potrebbe compromettere l’indipendenza dell’ente nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza e regolamentazione.

I sostenitori del modello realizzatosi negano alla questione una effettiva rilevanza, visto che  – almeno nelle società di capitali – la proprietà e la gestione viaggiano in modo separato, ma ciò non vuol dire che siano prive di interazioni fra di loro, soprattutto per quel che riguarda la scelta e la revoca degli amministratori.

Secondo l’articolo 6 della legge 241/1990, ogni figura soggettiva titolare di poteri pubblici deve  infatti astenersi dall’adottare decisioni nelle quali sia rinvenibile una di quelle fattispecie che si sussumono   nella nozione di “conflitto d’interessi”.

La potenziale vicinanza tra la Banca d’Italia e gli istituti di credito potrebbe così – anche solo teoricamente – influenzare l’imparzialità e l’efficacia della vigilanza (vista la situazione in cui il controllore è posseduto dal controllato) e la prima conseguenza di questo assetto è quello di incidere  anche sul potere di vigilanza comunque attribuito al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), perché – se il capitale della Banca d’Italia è detenuto da soggetti privati – si potrebbe creare una tensione tra la funzione pubblica di vigilanza del MEF, la delega operata in favore di Bankitalia e gli interessi privati degli azionisti di Quest’ultima.

Ma anche a prescindere dal  conflitto, la modifica dell’assetto proprietario della Banca d’Italia potrebbe comunque portare diversi vantaggi:

  1. Affidabilità e Stabilità: una riforma che, eliminando quel conflitto, consolidi il ruolo di vigilanza della Banca d’Italia potrebbe aumentare la fiducia dei mercati nella stabilità dell’intero sistema bancario italiano.
  2. Allineamento Internazionale: molti sistemi bancari centrali nel mondo sono di proprietà pubblica e una riforma in tal senso allineerebbe l’Italia agli standard internazionali.
  3. Trasparenza: una Governance pubblica potrebbe rendere l’attività di supervisione più trasparente e aperta al controllo  del Parlamento e del Governo.

Non vanno però sottovalutati i rischi di una simile riforma perché può aver ragione chi fa osservare come una sua completa “statalizzazione” potrebbe comportare il rischio di una maggiore influenza politica sulla Banca d’Italia e la conseguente ristrutturazione del suo modello organizzativo potrebbe anche avere ripercussioni temporanee sulla stabilità del sistema finanziario nazionale.

È difficile però negare che l’attuale assetto proprietario della Banca d’Italia ponga  i problemi cui abbiamo prima accennato; né possono trascurarsi le già  vicende, che tanto sono costate ai risparmiatori e ai contribuenti.

Dobbiamo dunque augurarci  che il nuovo Governatore usi la moral suasion di cui sarà immediatamente investito per suggerire al Governo e al Parlamento di affrontare finalmente una questione non più rinviabile, se non a costo di correre il rischio di assistere – in un più o meno prossimo futuro – al ripetersi degli episodi cui abbiamo fatto riferimento in apertura.

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