sabato, 16 Novembre, 2024
Sanità

L’inglese ‘Bmj’ pubblica una ricerca sul long-Covid: sindrome sovrastimata

Il marketing e l’informazione orientata hanno surclassato qualsiasi altro ambito, anche la ricerca scientifica? A leggere il paper di tre ricercatori californiani sul long-Covid sembrerebbe di sì. A tre anni dall’inizio della pandemia uno studio pubblicato dal Bmj, British medical journal, rivela, infatti, che abbiamo sovrastimato il long-Covid, sia negli adulti che nei bambini. E questo è stato fatto con “definizioni vaghe e inappropriate”, ricerche senza gruppi di controllo, “diagnosi errate”. Tutto il “non scientifico” possibile.

200 sintomi “vaghi”

Per long-Covid si intende la sindrome o sintomi individuali che sono sequele dirette del virus SARS-CoV-2 e durano almeno 12 settimane. Alcune conseguenze post-Covid, come la sindrome post-ICU e la compromissione respiratoria post-polmonite, sono comuni a molti virus delle vie respiratorie superiori. Anche per questo i ricercatori suggeriscono di “evitare il termine generico long-Covid” e suggeriscono che si definisca in modo più preciso e restrittivo. Negli anni scorsi siamo stati tutti bombardati dal racconto di sintomi che persistevano per settimane, mesi e anche anni. Sono nati centri e progetti per il trattamento del long Covid. E’ stata distribuita a man bassa una quantità di ansia e tanta preoccupazione per la salute e ora Vinay Prasad, Tracy Beth Høeg e Shamez Ladhaini, dell’Università della California, rivelano che le definizioni usate per descrivere il long Covid “sono state carenti dal punto di vista metodologico”, “troppo vaghe” con il risultato di “diagnosi errate” e una miriade di sintomi: se ne contano oltre 200.

Mancati gruppi di controllo

Alti tassi di long Covid, scrivono i tre ricercatori, sono ancora riportati nelle riviste accademiche e successivamente filtrati al pubblico. Ancora oggi si scrive che “quasi un adulto americano su cinque che ha avuto il Covid-19 ha ancora il Covid da lungo tempo”. Questo errore verrebbe continuato “a causa di definizioni eccessivamente ampie, mancanza di gruppi di controllo, gruppi di controllo inappropriati e altri difetti metodologici.” Una recente revisione delle definizioni ha rilevato che, di tutti gli studi sugli interventi Covid a lungo termine, solo il 54% richiedeva l’esistenza di un’infezione. I ricercatori californiani citano una recente revisione sistematica fatta su ricerche di long Covid e solo 22 su 194 (11%) hanno utilizzato gruppi di controllo. In questa particolare revisione circa il 45% dei soggetti affetti da Covid-19 presentava un sintomo irrisolto 4 mesi dopo la diagnosi, ma questa revisione non ha stimato la prevalenza tra i non infetti nei 22 studi con un gruppo di controllo.

Rassicurare sul long-Covid

In questi anni la ricerca epidemiologica avrebbe “sofferto di definizioni di casi eccessivamente ampie e di una sorprendente assenza di gruppi di controllo, che hanno portato a una distorsione del rischio”, scrivono i tre ricercatori che sottolineano anche le conseguenze di queste metodologie sbagliate: aumento della spesa sanitaria, errore nelle diagnosi di altre malattie, distrazione di fondi da altre ricerche e progetti. Miliardi sprecati. I gruppi di controllo, ricordano Prasad e gli altri ricercatori, “sono essenziali di fronte a una sindrome con definizioni vaghe” tipo mal di testa, cambiamenti di umore, dolori muscolari, nebbia mentale, difficoltà a concentrarsi, stanchezza, fatica, tosse, disturbi dell’olfatto e del gusto, perdita di appetito, ansia, nausea.” La ricerca non solo insiste sui gruppi di controllo, ma questi “dovrebbero anche essere adeguatamente abbinati ai casi, idealmente per età, sesso, geografia, stato socioeconomico e, se possibile, salute sottostante e comportamenti sanitari.” Insomma in conclusione sul long-Covid “i risultati di indagini di altissima qualità sono in contrasto con gran parte di ciò che viene riportato dai media. Tali studi di alta qualità possono e devono essere utilizzati per rassicurare il pubblico”.

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