“La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguale dimensioni.
L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla”.
È il secondo comma che il sen. Roberto Menia di Fratelli d’Italia vorrebbe aggiungere all’art.12 della nostra carta costituzionale con il ddl presentato anche in questa XIX legislatura, dal titolo “Riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica”.
L’Italia è, in effetti, uno dei pochi Paesi occidentali in cui la Costituzione non preveda espressamente il riconoscimento della lingua italiana come lingua ufficiale dello Stato.
Un piccolo passo avanti è stato fatto oltre venti anni or sono, con legge ordinaria, la n. 482 del 15 dicembre 1999, che ha come titolo “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” e che, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione (La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche) e in armonia coi principi generali stabiliti dagli organismi europei ed internazionali, all’articolo 1 ha espressamente stabilito che: “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”. Consacrarla in Costituzione significa farle assumere ben altra autorità (forma e sostanza) sia in termini di immagine che di conseguenti diritti/doveri da parte dello Stato, delle istituzioni e dei cittadini della Repubblica.
L’Assemblea Costituente, a suo tempo, sfiorò la materia che venne poi accantonata. Preferì solamente affermare nell’articolo 3 il principio secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Tante furono le motivazioni ma anche le finalità per evitare che orientamenti autonomisti potessero favorire la valorizzazione della lingua o il dialetto di comunità minoritarie in antitesi alla lingua comune”.
Sicuramente i primi effetti del dovere/diritto si avranno sulla formazione delle leggi e sul linguaggio della nostra classe politica, inclini a terminologie esterofili come “jobs act” o “smart working, ed altro.
Vi saranno ricadute nel mondo della scuola di ogni ordine e grado, nei rapporti interculturali e nella globalizzazione, come anche nelle arti, professioni e nelle attività imprenditoriali, interne ed internazionali, compresa l’etichettatura dei prodotti, nonché nelle stampe e nelle pubblicazioni nei rapporti con le altre nazioni e, soprattutto, verso gli immigrati e verso la costituenda unità politica e culturale degli Stati Uniti d’Europa, rimasta impantanata.
C’è da tener conto delle diverse istanze emerse in altre legislature portatrici di altrettante diverse sensibilità intorno a un tema di rinnovata centralità politica, quale il profilo dell’identità linguistica e culturale del Paese, di cui la lingua è espressione primaria, oltre che elemento di identità. Iniziative vi furono nella XIII Legislatura, nel 2000, cosi in altre successive, come il DDL.S. 973, nella XVII Legislatura, corroborato
anche del parere dell’Accademia della Crusca. Occorre, tra l’altro, tener presente che la nostra società comprende, come dai dati anagrafici, circa 5 milioni di persone di tutte le età, di audiolesi, di cui 70 mila sordomuti, ovvero non udenti, segnanti nativi o tardivi, molti dei quali si esprimono nel linguaggio orale usando la madrelingua LIS (lingua italiana dei segni).
Le difficoltà di comunicazione in tutti gli ambienti, familiari e non sono sono immensi, specie presso i luoghi di pronto soccorso e di cura in genere, oltre che nella vita quotidiana lavorativa e sociale.
Armonizzare e riconoscere la lingua dei segni come integrante della madre lingua italiana parlata è un dovere fondamentale dello Stato, permettendo così che tutti i cittadini possano comunicare e relazionarsi tra loro.