Una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha stabilito che le navi di organizzazioni umanitarie, che conducono un’attività sistematica di ricerca e soccorso di persone in mare, possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato di approdo. Tuttavia, lo Stato di approdo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente. Spetta a quest’ultimo l’onere di dimostrarlo. La questione era stata sollevata dalla Sea Watch, l’organizzazione umanitaria con sede a Berlino (Germania). Essa svolge un’attività sistematica di ricerca e soccorso di persone nel Mar Mediterraneo, mediante navi di cui è proprietaria e gestore. Tra tali navi figurano la Sea Watch 3 e la Sea Watch 4, battenti bandiera tedesca e certificate come navi da carico. Nell’estate del 2020, queste due navi hanno effettuato operazioni di soccorso e hanno sbarcato le persone salvate in mare nei porti di Palermo e di Porto-Empedocle (Italia). Esse sono poi state oggetto di ispezioni da parte delle capitanerie di tali porti, con la motivazione che non erano certificate per l’attività di ricerca e soccorso in mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello autorizzato.
Tali capitanerie hanno inoltre riscontrato l’esistenza di carenze tecniche e operative che comportavano un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente e richiedevano il fermo delle navi. La Sea Watch ha proposto, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia (Italia), due ricorsi volti all’annullamento di tali provvedimenti. In detto contesto, essa ha sostenuto che le capitanerie avrebbero violato i poteri di cui dispongono le autorità dello Stato di approdo, quali risultano dalla direttiva 2009/16, interpretata alla luce del diritto internazionale. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia ha proposto alla Corte talune questioni pregiudiziali allo scopo di chiarire l’estensione dei poteri di controllo e di fermo dello Stato di approdo sulle navi gestite dalle organizzazioni umanitarie. Nella sua sentenza pronunciata in data odierna, la Corte, riunita in Grande Sezione, dichiara, in primo luogo, che la direttiva 2009/16 è applicabile, in linea di principio, a qualsiasi nave che si trovi in un porto o nelle acque soggette alla giurisdizione di uno Stato membro e batta bandiera di un altro Stato membro, ivi comprese le navi gestite dalle organizzazioni umanitarie. In secondo luogo, la Corte sottolinea che la direttiva 2009/16, il cui scopo è migliorare l’osservanza delle norme di diritto internazionale e della legislazione dell’Unione relative alla sicurezza marittima, alla tutela dell’ambiente marino e alle condizioni di vita e di lavoro a bordo, deve essere interpretata tenendo conto delle norme di diritto internazionale che gli Stati membri sono tenuti a rispettare, a cominciare dalla convenzione sul diritto del mare 3 e dalla convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare 4. La prima sancisce, in particolare, l’obbligo fondamentale di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare.
La seconda dispone che le persone che si trovano, a seguito di un’operazione di soccorso in mare, a bordo di una nave, compresa una nave gestita da un’organizzazione umanitaria quale la Sea Watch, non devono essere computate in sede di verifica del rispetto delle norme di sicurezza in mare. Il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sé solo, una ragione che giustifichi un controllo. Tuttavia, una volta che una nave del genere ha completato lo sbarco o il trasbordo di tali persone in un porto, lo Stato di approdo può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente. Spetta al giudice del rinvio verificare il rispetto di tali prescrizioni. In terzo luogo, per quanto riguarda l’estensione dei poteri dello Stato di approdo, la Corte rileva che quest’ultimo ha diritto, per dimostrare l’esistenza di indizi seri di un pericolo, di tenere conto del fatto che navi classificate e certificate come navi da carico da parte dello Stato di bandiera sono, in pratica, utilizzate per un’attività sistematica di ricerca e soccorso di persone. Per contro, lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione.
Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera. Infine, nel caso in cui sia accertato, a seguito di un’ispezione effettuata dalle autorità dello Stato di approdo, che una nave battente bandiera di un altro Stato membro presenta carenze comportanti un pericolo per la sicurezza in mare, o addirittura un evidente pericolo che ne giustifichi il fermo, la Corte sottolinea l’importanza del principio di leale cooperazione, secondo il quale gli Stati membri, tra cui quello che riveste la qualità di Stato di approdo e quello che riveste la qualità di Stato di bandiera, sono tenuti a cooperare e a concertarsi nell’esercizio dei loro rispettivi poteri.