Parlami, parlami ancora!
Dalla bocca della mamma che scruta le prime parole sulle labbra del suo bimbo all’ultima parola sospirata dall’anziano, la parola è da tutti noi invocata. E’ il contatto con l’altro, l’ispirazione di un progetto, di un’avventura condivisa. E’ la richiesta di un aiuto, la necessità di essere ascoltati, il bisogno di un incontro. Senza parola siamo muti, non solo nel silenzio ma nello scambio di emozioni , di idee e progetti.
Parlare di “parole”, oggi, nei giorni dei social, nella civiltà della comunicazione “totale”, può sembrare inutile. Non lo è.
Se il silenzio è la precondizione per l’ascolto di sé , la parola ci giunge, ci stimola, ci ferisce. Se è inutile ci passa accanto e se ne va. Se ci colpisce, risveglia la nostra mente e, talvolta, ci riempie il cuore. Ma le parole hanno una propria vita, partono in sordina e si sciolgono in riflessioni che diventano profonde, capaci di scuotere il torpore quotidiano. Superano le semplificazioni schematiche dei social, dei like, diventano riflessioni, analisi, percorsi. Condividere le parole, comprendersi e comprendere risponde anche all’esigenza di costruire percorsi per riconoscersi su obiettivi comuni a tutti, per declinare una visione comune.
Noi tutti sappiamo di vivere all’interno di una società contemporanea complessa. Spesso sentiamo dire uno dell’altro: “non parliamo la stessa lingua…” e si alza un muro di diffidenza, di incomprensione e ci si allontana. Riuscire a trovare le parole giuste è uno sforzo che premia la fatica dell’impegno; non parole di indulgenza verso l’altro, ma parole di attenzione all’altro, quelle parole che lasciano trasparire un interesse vero, non formale o di pura cortesia.
Jean Guitton, erudito e storico francese, era amico di Paolo VI . Per alcuni anni fu ospite a Castel Gandolfo nei periodi estivi, quando papa Montini lo invitava a trascorrere nelle quiete dei colli albani alcuni giorni destinati alla riflessione accademica e, in generale, all’analisi dei “segni dei tempi”. Da quegli incontri ne trasse un libro che riscosse un certo successo nei primi anni ’70: “Dialoghi con Paolo VI“. Un volumetto ricco della migliore “clarté“ francese che incontra la sensibilità e la delicatezza del papa bresciano. Un libro dove la parole pronunciate non sono mai abbozzate ma escono dalle labbra portando con sé tutta la vita spirituale e intellettuale dei protagonisti. Perché condividere la parola vuol dire anche condividere competenze, esperienze sviluppate all’interno dei propri mondi di responsabilità. “Bisogna essere antichi e moderni”, aggiungeva Guitton, “parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?“.
Anche oggi noi abbiamo bisogno di questo: non tanto guardare alle parole per lamentarsi, per indignarsi, protestare e recriminare; passaggi che, visti in sé stessi, possono essere necessari ma non definitivi . Abbiamo bisogno di coltivare una grande visione delle nostre responsabilità, di un’umanità che non può avere un futuro prescindendo da noi stessi e da ciò che ci diciamo. Abbiamo perciò ancora bisogno di parlare tra noi.