Il commiato di Mario Draghi dalla Banca Centrale Europea è stato unanimemente salutato con un apprezzamento per il suo operato: ha salvato l’euro da una crisi che sarebbe stata devastante se la BCE avesse continuato a seguire la politica dissennata del suo predecessore Trichet.
Il banchiere francese era totalmente appiattito sulla linea dell’astratto rigore della Bundesbank, incurante della difficoltà di crescita economica complessiva dell’Eurozona e del rischio di altre crisi finanziarie che avrebbero potuto travolgere Paesi con i bilanci in forte difficoltà.
A differenza della Federal Reserve, purtroppo, la BCE non ha nei suoi compiti statutari quello di promuovere la piena occupazione. È una grave lacuna che andrebbe colmata con una integrazione della missione che l’Europa affida alla sua Banca Centrale.
La BCE non è neanche “prestatore di ultima istanza”, e quindi non può stampare moneta a piacimento per colmare le lacune generate da crisi di liquidità. Ma un compito preciso l’Istituto di Francoforte ce l’ha ed è quello di assicurare che l’inflazione nell’Eurozona stia intorno al 2%.
Negli anni di Trichet questo obiettivo invece di essere raggiunto è stato ostacolato dalla politica degli alti tassi di interesse che hanno reso artificialmente forte la moneta europea proprio mentre le economie di vaste zone dell’eurozona erano molto deboli. Così, di fatto, abbiamo avuto politiche restrittive in presenza di gravi crisi finanziarie di membri del salotto dell’euro e con un’economia europea che arrancava mentre la locomotiva americana macinava tassi di crescita superiori al 3%, Una politica monetaria schizofrenica e ispirata solo dalla piscosi dell’inflazione che continua, da 100 anni in qua, a tormentare il sonno dei governanti e soprattutto dei banchieri tedeschi.
Draghi ha avuto il coraggio di sbaraccare questa politica suicida e di saper imporre col proprio prestigio e la competenza tecnica una linea completamente diversa basata sull’uso di strumenti straordinari per non far mancare al sistema economico la liquidità necessaria.
Le scelte di Draghi hanno scontato l’opposizione dei rappresentanti della Bundesbank che, maldestramente, nella fase finale del mandato del Presidente, hanno pure avuto il pessimo gusto di sbattere la porta e andarsene con la coda tra le gambe.
Draghi non ha favorito questo o quel Paese. La stessa Germania, nonostante le lamentele di Jens Weidmann , ha tratto ampio beneficio dalla politica espansiva della BCE. E nessun populista può ragionevolmente affermare che Draghi abbia favorito le banche, che spesso si lamentano dei tassi troppo bassi e dei rendimenti negativi ad essi correlati.
Draghi non poteva fare di meglio e non poteva spingersi oltre. La sua coraggiosa politica monetaria passerà alla storia come la scelta più audace nell’ora più buia dell’Euro. Tutto questo è servito a non far naufragare la moneta unica e a mettere fuori gioco la speculazione che puntava alla crisi dell’Euro. il famoso “whatever it takes” è stata la pietra tombale nei confronti di chi, con la inconsapevole complicità dei rigoristi tedeschi e dei loro seguaci austriaci, olandesi e finlandesi, lavorava per affossare la moneta europea.
Ma al coraggio di Draghi sul piano monetario non è seguito altrettanto coraggio nè da parte della Commissione Europea nè da parte dei Governi dei Paesi membri.
Gli uni e gli altri si sono barcamenati in una politica economica miope: gli eurocrati hanno continuato ad inseguire l’obiettivo dei “conti in regola” senza farsi carico di stimolare le politiche di investimento che avrebbero potuto facilitare la ripresa dello sviluppo e la riduzione dei deficit di bilancio e degli stock di debito pubblico.
I Governi nazionali poco o nulla hanno fatto per dare slancio all’economia: la Germania ha continuato a bearsi degli esorbitanti surplus commerciali senza spendere un euro per far crescere la domanda interna; altri Paesi hanno puntato ad accrescere il potere di attrazione fiscale senza generare vero sviluppo, altri Paesi tra cui il nostro-hanno perso tempo e denaro in politiche assistenziali sena intervenire sulle riforme strutturali, sulla riduzione della spesa pubblica improduttiva e sull’efficientamento complessivo della loto economia.
Draghi quindi lascia un’Europa sana nella sua ossatura monetaria, rafforzata dalle potenti iniezioni di moneta con strumenti non convenzionali, ma debole nella muscolatura per colpa delle mancate riforme e dei paraocchi con cui i Governi nazionali si sono mossi.
La lezione finale da trarre è evidente: la politica monetaria non può fare tutto, dà l’ossigeno per non soffocare e far respirare bene le economie, ma senza politiche che rimuovano le inefficienze dei sistemi nazionali e rilancino investimenti pubblici e privati su scala europea non ci si può aspettare nessuna crescita nè dell’occupazione nè della prodotto interno lordo nè nell’eruoona nè nell’intera Unione europea
Draghi ha avuto successo ma la Commissione di Bruxelles e i governi nazionali non sono stati all’altezza. Speriamo che abbiano imparato la lezione.