I banchieri centrali hanno i nervi saldi. La fiammata dell’inflazione non li spaventa e non corrono ai soliti ripari, che prevederebbero rialzi dei tassi e brusca marcia indietro dalle politiche espansive. È forse la prima volta nella storia recente che l’inflazione non viene percepita come un male pericoloso da affrontare con cure da cavallo, ma come un segnale di ripresa vorticosa dell’economia dopo la batosta inflitta dal Covid. Insomma è un’inflazione buona fin quando non parte al galoppo superando le soglie psicologiche del 6-7%.
Possiamo convivere con un “inflazione “buona”.
Ovviamente tutto deve essere valutato in relazione al ritmo della crescita dell’economia reale che persino i più ferrei monetaristi sono obbligati a ritenere prevalente rispetto alla stabilità monetaria.
In questo scenario la BCE sembra aver imparato la lezione di Mario Draghi, che dal 2011 ribaltò la linea imposta dalla Bundesbank, con l’acquiescenza della Francia, e imbracciò il bazooka con cui seminò il panico tra chi speculava su un euro dato per moribondo.
La crescita economica oggi è come un bambino che non può essere soffocato nella culla da terapie massacranti solo perché ha una piccola febbre. Una rigida stretta monetaria adesso avrebbe effetti devastanti e va evitata. Ad una condizione: che lo sviluppo economico sia sano, non appesantito né dall’aumento dei prezzi né da una spirale di aumenti delle retribuzioni senza fondamento.
Il vero nemico oggi non è l’inflazione ma l’ineguale distribuzione dei benefici della crescita: se si esce dal tunnel della recessione si devono ridurre le diseguaglianze che la pandemia ha accresciuto e combattere la povertà che è aumentata in misura vergognosa.