Ognuno di noi è portato a pensare in genere che le cose non cambino o che il cambiamento assuma in effetti i tratti di un fenomeno paranormale che accade ogni cento anni: troppo lento e troppo graduale per coglierne i benefici; mentre tendiamo ad associare di solito ai cambiamenti repentini i risvolti meno positivi del cambiamento stesso. Invece è proprio perché le cose cambiano, poiché sono in continua evoluzione che si mantengono per quelle che sono nel tempo. In altre parole: niente rimarrebbe ciò che è o manterrebbe la sua sostanza se non grazie alla sua perpetua trasformazione formale.
LA SOSTANZA NELLA FORMA DELLA RIVOLUZIONE
Dunque il cambiamento – verrebbe da chiedersi – non è che un mutamento di vesta? Come per la pelle dei serpenti nella muta? E se è solo la forma a cambiare, perché la sostanza rimanga intatta, si può definire effettivo il cambiamento? Secondo Nietzsche “Quando una moltitudine di piccole persone in una moltitudine di piccoli luoghi cambiano una moltitudine di piccole cose, costoro possono cambiare la faccia del mondo”. La faccia che è forma, la sembianza collettiva: che è anche verità, e non soltanto apparenza. Se come diceva Brodskij: l’estetica è madre dell’etica, non possiamo che ritenere la forma del cambiamento, parte della sua essenza e dunque vera evoluzione e rivoluzione.
L’ASSUNZIONE DELLA SOFFERENZA PER CAMBIARE
Quello che comporta nel suo processo, nel suo stadio intermedio, l’assunzione del dolore volontario della veridicità – come per l’uomo di Schopenhauer, che per sentire la vita nella sua evoluzione, deve necessariamente soffrire per la vita e lo desidera fortemente: lo vuole per rimanere sé stesso e di sé stesso, senza essere derubato della sua identità dalla continua distrazione dei pensieri. La decisione più tragica allora è quella di sentire il cambiamento senza essere travolto e trasportato inerme ed inconsapevole dalla successione degli eventi: comprendere profondamente ogni cosa e per questo patire ed avvertire altrettanto profondamente ogni avvenimento.
IO SONO E SERVO ME STESSO: IL MIO CAMBIAMENTO
Essere il cambiamento dunque e non limitarsi a guardarlo da spettatore; bensì osservarlo – e non è un caso che questa parola ne contenga un’altra: servo, poiché non guardo ma assumo ciò che vedo, tanto da rendermene parte integrante, da asservirmi all’oggetto del mio sguardo. Osservo perciò il cambiamento e ne sono immerso da schiavo ed agente al contempo: questa è forse l’unica condizione che metta allo stesso piano i due opposti, le due figure antitetiche: il servo ed il padrone, che si incontrano in un’unica anima nel tempo del cambiamento.