sabato, 21 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Nicola Tanturli, l’ultimo libero

Un’avventura a lieto fine capitata ad un bambino di poco meno di due anni, Nicola Tanturli, è assurta agli onori della cronaca nazionale. Ovviamente con schiere di moralisti di mestiere e di facciata pronti ad accusare i genitori, a porre interrogativi sulle trentasei ore di scomparsa del bambino, a ricercare ad ogni costo un colpevole, quasi addolorati di doversi accontentare di questo, senza che dalla vicenda emerga alcun mostro.

Ne faccio l’argomento di questa mia rubrica domenicale perché mi ha ispirato una serie di interrogativi ai quali cercherò di dare risposta, certamente in maniera non organica e con la poco profondità che mi consente lo spazio a disposizione.

Interrogativi che ruotano attorno al concetto di “libertà” un diritto del quale si parla sempre: e più se ne dibatte, più viene ristretto. Al punto da sembrarmi che se ne voglia celebrare il de profundis: come acutamente e profeticamente aveva notato l’amico Giuseppe Pucci, uno dei miei Maestri, allorché si cominciò a regolare legislativamente la così detta “privacy”«significa che non avremo più diritto alla riservatezza».

Anche i commenti all’avventura di Nicola ruotano attorno al concetto di libertà.

Concetto che, senza essere evocato, viene messo fortemente in dubbio. Al punto da dubitare che i genitori di Nicola abbiano il diritto di vivere come hanno scelto di vivere, senza televisione, senza internet, in casolari dispersi nella montagna, ad 800 metri di quota, cibandosi di quel che producono o che scambiano con i vicini, lasciando i loro marmocchi del tutto liberi di girovagare per i boschi circostanti la casa. E – raccontando che già si era perso per alcune ore un altro figlio, più grande (tre anni, ritrovato dai vicini) – la critica perché non hanno agito responsabilmente, aumentando la sorveglianza sui figli e limitandone la libertà di movimento.

Con un certo impaccio che si poteva cogliere in alcuni commentatori – di norma quelli più orientati al politicamente corretto – nell’evidente imbarazzo di dovere criticare una scelta di vita che, senza quell’avventura del piccolo Nicola, avrebbero esaltato come coraggioso tentativo di salvezza del pianeta. Come se quello fosse un adempimento, invece di un rifiuto di un contratto sociale che (ma questo è un mio commento) rispetto al ‘700 di Rousseau, si è oltremodo appesantito, complicato e riempito di clausole, limiti, divieti, che lo hanno reso pressoché inaccettabile.

Insomma, un problema antico: che diventa sempre più arduo, man mano che l’informatica rende tutto più agevolmente controllabile e riduce gli spazi di evasione di ciascun individuo, la cui vita è limitata ed indirizzata da un logaritmo.

Ecco, il piccolo Nicola, non ha al momento alcuno dei nostri limiti. È un bambino libero, che presumo circondato dall’amore dei suoi genitori, ma non oppresso dalla loro attenzione. Un bambino che può rompersi la testa, come potevamo fare quelli della mia generazione, senza che ciò diventasse una tragedia giudiziaria; che può perdersi nel bosco e vivere la gioia di essere ritrovato e dissetato, senza essere rimproverato per essersi allontanato dalla gonna di mammà. Addirittura un bambino che riesce a vivere senza televisione e senza internet. E che appare libero in maniera naturale, dimostrando che la libertà e non la costrizione è il più naturale istinto umana.

Il punto, quindi, sta nell’accettazione sociale e giuridica di una situazione che potrebbe essere all’estremo. Pensando a genitori che, non ritrovando il loro bambino impiegano nove ore di ricerca da parte loro e dei vicini prima di avvertire le “autorità”; e che non avevano preso le “opportune misure” (secondo criteri per la maggior parte di noi “persone normali”) perché la già vissuta fuga del figlioletto più grande non si ripetesse, si potrebbe avere addirittura la tentazione di togliere i bambini ai genitori, di “darli in affidamento”.

Problema molto serio e che non sarò certamente io a sottovalutare. L’interesse e la tutela del minore è prevalente: e, vi assicuro, i casi umani portati all’attenzione dei giudici minorili fanno rabbrividire.

Ma qui non è in gioco un maltrattamento in sé, ma un modello di vita che discende dal rifiuto della nostra cultura. La domanda è se sia lecito che un minore, addirittura un bambino di meno di due anni che in un contesto urbano normale non saprebbe, da solo, neppure trovare la strada tra la sua cameretta e la cucina, viva con la libertà di cui gode Nicola.

Siamo sempre nel tema della diversità, che significa libertà di essere come si vuole.

È certamente libertà il rifiuto dei genitori di Nicola e la loro scelta di un modello di vita diverso: che va tutelata, con tutte le sue conseguenze. Circa i minori: garantita a questi l’istruzione (che non mi pare che i genitori, gente colta e non selvaggi, vogliano negare) e la salute (le 36 ore da solo nel bosco sono il segno di un ottimo stato fisico).

Il sistema, insomma, è tenuto ad accettare anche questa diversità, rara, poco condivisa, problematica. Fino a quando essa non si tramuta in un reato: ma non perché improvvisamente vietata da una legge che oggi non c’è, ma perché concretizzante un atto inteso generalmente come crimine e descritto con precisione chirurgica dalla legge, per non lasciar spazio ad interpretazioni (la mia sola critica, a parte la fumosità del reato ipotizzato, al ddl Zan: non si affermano le libertà con i divieti).

Perché libertà, ricordiamolo, significa poter fare tutto ciò che non è espressamente vietato, col limite soltanto di non ledere i diritti degli altri.

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