Il binomio tasse e morte, evocato tra gli altri da Benjamin Franklin, è noto a tutti: ai contribuenti – quelli onesti – che vedono le prime ineluttabili come la seconda; e al Fisco che, altrettanto inevitabilmente, in occasione della seconda non fa mancare la sua partecipazione. Il binomio ha un che di effettivamente sinistro e l’imposta di successione è storicamente il bersaglio di forti critiche da parte di chi, tendenzialmente a destra, ricorda i già gravosi oneri fiscali che incombono sui vivi ed etichetta quel prelievo come “la tassa sul morto” (anch’essa, ovviamente, pagata dai vivi).
L’USO DELLA TASSA DI SUCCESSIONE
Sino ad oggi, tuttavia, di Morte e di Fisco parlavano più che altro gli adulti, tendenzialmente in là con gli anni e il tema toccava i giovani soltanto quando avevano la sfortuna di doversi confrontare con una dichiarazione di successione. Immaginandoci un colloquio tra diciottenni dei giorni d’oggi, francamente, tutto ci sarebbe venuto in mente, tranne che ipotizzare come temi centrali il Fisco e la Morte. E invece… il segretario del PD è riuscito ad attirare l’attenzione di una fascia di popolazione un po’ distratta, rispetto almeno a questi temi; non voglio andare oltre a immaginare il colloquio dei nostri diciottenni: come ha detto Carlo Rovelli sul Corriere, certamente ci sarebbero quelli che, ispirandosi a George Best – “ho speso gran parte dei miei soldi per alcool, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato” – spenderebbero “male”, anche “molto male”, i 10.000 euro che lo Stato riconoscerebbe a ognuno di loro grazie al gettito dell’imposta di successione. Ma la maggior parte di loro ne farebbe probabilmente buon uso.
UNA SOLUZIONE LIBERALE
L’aumento dell’imposta di successione in Italia è un refrain piuttosto risalente e negli ultimi 7/8 anni sempre più ricorrente. Prima di trattare questi aspetti, quindi, mi sia consentito dire che la più grande novità della proposta di Enrico Letta a me pare diversa: pochi rilevano, infatti, che, pur proponendo un aumento delle imposte, il segretario del maggior partito della sinistra italiana si sia speso a favore di una soluzione decisamente liberale: come definire, altrimenti, il fatto che il gettito della maggior imposta sarebbe affidato, con limitazioni minime sull’effettivo impiego, ai privati, lasciandoli liberi di decidere che cosa farne, invece che assegnato a un ministero, un comitato, una struttura commissariale, una task force o qualunque altro gruppo di lavoro centralizzato? Già questa a me parrebbe una ventata di novità eccezionale, tanto più sorprendente se poi davvero i soldi andassero ai giovani.
Sono del resto genuinamente convinto, come Letta, che un euro investito su, o da, un giovane, specialmente se lo investisse su se stesso, sulla sua formazione – nel senso più ampio che questo termine può avere -, renderebbe in media di più, molto di più, rispetto al gestore patrimoniale del fortunato erede cui sarebbe tolto, quanto meno dal punto di vista della società nel suo complesso: la redistribuzione, non espropriativa, può anche creare ricchezza, e lo si vede proprio paragonando i Paesi europei a quelli dove le disuguaglianze sono più marcate. E veniamo quindi al punto: fino a che punto può dirsi che il patrimonio accumulato in vita sia intoccabile? Valichiamo evidentemente i limiti della filosofia politica, al che, altrettanto evidentemente, la discussione rischia di polarizzarsi; e allora limitiamoci ad alcune considerazioni pratiche e comparative.
È almeno dal 2014 che le istituzioni internazionali osservano la particolarità della nostra imposta di donazione e successione: aliquote contenute, almeno per coniugi e discendenti; franchigie elevate, calcolate per ogni erede; basi imponibili calcolate generosamente: valori catastali per gli immobili, patrimonio netto, senza avviamento, per le società; esenzione dei titoli di stato; esclusione delle polizze assicurative; difficoltà di applicazione pratica per altri beni mobili di ardua tracciabilità e per le liberalità non formalizzate, o comunque indirette; etc. Il risultato, come osserva Letta, è un gettito 10 volte inferiore a quello di altri Paesi europei, anche se non contassimo la situazione, diametralmente opposta e non invidiabile, della Francia (aliquota al 45% per i lasciti oltre 1,8 milioni, ma anche per quelli inferiori il prelievo è significativo). Che fare, allora?
ADOTTARE ALIQUOTE RAGIONEVOLI
L’ipotesi di un piccolo incremento del prelievo sui patrimoni più consistenti non è certamente offensiva. L’aliquota del 20% ipotizzata da Letta è in effetti quella suggerita già nel 2014 da un osservatore del Fondo monetario internazionale (Luc Eyraud, Reforming Capital Taxation in Italy). Ora il contesto è un poco diverso rispetto al 2014 e bisogna evitare forme di prelievo di fatto espropriative, perché togliere il 20% del patrimonio ereditario non liquido rischierebbe in alcune ipotesi di mettere in difficoltà alcune famiglie, per quanto abbienti, magari a seguito di decessi improvvisi. Sono esperienze già vissute anche in Italia, quando l’imposta di successione era più pesante di quella attuale. Aliquote che, a seconda del grado di parentela, passassero dal 4, 6 e 8 per cento attuali al 8, 10 e 12 per cento, con possibilità di rateazione su 5 anni, potrebbero dirsi ragionevoli. Ma quel che conta è ovviamente anche il contesto: non si può ignorare il fatto che, quantomeno nel caso dei redditi da lavoro, un patrimonio lasciato in eredità è il frutto di sacrifici enormi e quella famiglia, il suo de cuius, ha già dato molto alla Repubblica, che è fondata proprio sul lavoro. Parallelamente all’incremento dell’imposta di successione, pertanto, è fondamentale una rimodulazione del prelievo sui redditi: anche questo, in fondo, dovrebbe andare a beneficio dei giovani. E la produzione di reddito sarà fondamentale per il sostenimento della nostra economia e la riduzione dei debiti. L’obiettivo, insomma, deve essere uno spostamento del prelievo dalla produzione alla rendita, senza esagerazioni. Succederà?
LE SEGNALAZIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Draghi ha fatto capire che non è il momento di parlare di tasse, tantomeno di aumenti delle stesse. Ma non ha detto “no, né ora né mai”. E uno dei suoi Ministri più importanti, a proposito dell’esenzione dall’imposta prevista per i passaggi generazionali delle aziende, scriveva un anno fa: “la norma […] risulta eccedente rispetto alla protezione offerta dai «principali precetti costituzionali (artt. da 29 a 31 Cost.) posti a tutela della famiglia e, in particolare, delle situazioni di potenziale fragilità in essa ravvisabili» […] L’agevolazione […] eccede altresì, per come strutturata, l’ambito di operatività dell’art. 41 Cost. […] non è destinata direttamente all’impresa ma ad agevolarne la continuità a favore dei discendenti nel momento del passaggio generazionale. […] l’esigenza di garantire la continuità aziendale nella giurisprudenza di questa Corte è stata valorizzata in particolare in quanto preordinata alla garanzia del diritto al lavoro […] in nome quindi [del] mantenimento dei livelli occupazionali […]”. E se in astratto l’agevolazione vuole evitare oneri finanziari straordinari in un momento delicato della gestione aziendale, come è il passaggio generazionale, “in concreto, tuttavia, l’esenzione […] viene accordata prescindendo da qualsiasi considerazione delle dimensioni dell’impresa, di particolari congiunture economiche sfavorevoli o di indici dai quali sia desumibile la difficoltà dei successori nel corrispondere l’imposta e si inserisce in un sistema impositivo, come quello attualmente vigente in Italia, caratterizzato (quanto ai discendenti e al coniuge che qui rilevano) da un’aliquota pari al 4 per cento e da franchigie consistenti. […] non risulta immediato ipotizzare che i problemi di liquidità derivanti dagli oneri conseguenti alla vigente imposta di successione possano, nella normalità dei casi, mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa.
Si tratta, in ogni caso, di un rischio realisticamente più riferibile e ragionevolmente più giustificabile con riguardo alle piccole e medie imprese piuttosto che alle grandi [come rilevato anche da una specifica raccomandazione della Commissione UE]. Pertanto risulta in concreto eccessivo che anche trasferimenti di grandi aziende, di rami di esse o di quote di società, che possono valere centinaia di milioni o addirittura diversi miliardi di euro, vengano interamente esentati dall’imposta, anche quando i beneficiari sarebbero pienamente in grado di assolvere l’onere fiscale. Ciò rende l’esenzione in discorso, per come strutturata, in parte disallineata rispetto alla finalità, in sé certamente meritevole di tutela, di garantire la sopravvivenza dell’impresa e quindi di evitare la dissipazione dell’universo dei valori sociali ad essa indubbiamente riferibili, che derivano dalla sua capacità, in varie forme e modi, di promuovere l’utilità sociale. […] non è detto che [questa esenzione] assicuri, direttamente o indirettamente, un’idonea qualità manageriale (problema tanto più grave quanto maggiori sono le dimensioni dell’impresa).
Infine, sempre riguardo alle finalità sociali, va notato che l’agevolazione in oggetto può anche favorire una concentrazione della ricchezza che prescinde da una ragionevole approssimazione al merito e alle capacità individuali, ostacolando così la mobilità socio-economica e l’uguaglianza delle opportunità di partecipazione sociale. Tali elementi portano quindi a concludere che la norma in parola, data la sua attuale struttura, non solo non coincide con un interesse sempre riconducibile all’art. 41 Cost., ma può condurre, con riguardo all’applicazione alle grandi imprese, anche ad esiti, come detto, eccedenti rispetto allo scopo, dal momento che quanto più ampie sono le esenzioni fiscali, tanto più impegnativi dovrebbero essere i requisiti idonei a giustificarle.
È significativo, da ultimo, ricordare che, con sentenza del 17 dicembre 2014, il Tribunale costituzionale tedesco, investito della questione su rinvio della Corte federale delle finanze, ha dichiarato incompatibile con il principio di eguaglianza – assegnando un congruo termine al legislatore per intervenire – l’agevolazione fiscale (analoga a quella oggetto dell’odierno scrutinio, ma meno ampia, più rigorosa con riferimento alla conservazione dei posti di lavoro e soprattutto inserita in un contesto in cui l’imposizione è nettamente più elevata) prevista dalla normativa tedesca in tema di imposte sulle successioni e sulle donazioni in occasione del passaggio del patrimonio aziendale per successione mortis causa, ritenendola sproporzionata nella parte in cui, estendendosi oltre l’ambito delle piccole e medie imprese, prescinde da ogni verifica delle effettive esigenze delle imprese agevolate.” (Corte costituzionale, sentenza 23 giugno 2020, n. 120, Pres. Cartabia; Rel. Antonini).
Ho voluto riportare questi ampi stralci della sentenza per tre motivi: il primo è la loro forza argomentativa, in ultimo anche per il richiamo alla riforma attuata in Germania, sui cui dettagli non posso dilungarmi oggi. Il secondo è la provenienza, che è la Corte allora presieduta da Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia. Il terzo è una doglianza del Presidente della Corte costituzionale stessa, Giancarlo Coraggio, che solo pochi giorni fa ha rilevato come troppo spesso le segnalazioni della Corte restino inascoltate da parte del Parlamento. Sarà la volta buona?