Nuovi equilibri domestici da ricostruire, rischio di aumento delle disuguaglianze economiche e di genere, scarsa formazione, minaccia di “tecnostress”, preoccupazione per la riservatezza dei dati e dei possibili controlli del datore di lavoro: sono queste alcune delle risultanze emerse dalla ricerca promossa dal Centro Studi Corrado Rossitto (centro di ricerca e consulenza di CIU – Unionquadri) riguardante il primo anno di applicazione del lavoro agile “emergenziale”, argomento posto prepotentemente al centro del dibattito dalla recente pandemia e che verrà presentato oggi – online – nell’ambito della tavola rotonda “Il lavoro agile: misura di emergenza o nuova forma di flessibilità?” organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Roma e dallo stesso Centro Studi Corrado Rossitto.
La Discussione ha incontrato la Dott.ssa Gabriella Àncora, Presidente nazionale di CIU-Unionquadri, l’associazione sindacale che tutela i quadri nel settore privato e pubblico, ma anche i ricercatori, i professionisti dipendenti ed il mondo delle professioni intellettuali.
Quali sono state le conseguenze della pandemia sulla modalità di organizzazione del lavoro da un anno a questa parte?
Già prima della pandemia, per la verità, la contrattazione collettiva aveva timidamente consentito ai dipendenti di lavorare a domicilio – con una sorta di sperimentazione non sempre a nostro avviso destinata a caratterizzarne la prestazione – utilizzando modalità di lavoro agili per una-due volte alla settimana. Con l’avvento della pandemia la lenta e progressiva introduzione di questa nuova “cultura” organizzativa è saltata, scardinando nel giro di pochi mesi un modello non più aderente alla realtà, primo fra tutti quello del luogo ed il tempo della prestazione, non più nei locali aziendali ma direttamente tra le mura domestiche. Basta analizzare qualche dato: nel 2019 in Italia i lavoratori “agili” nelle imprese private erano meno di 1 milione (il 3% sul totale degli occupati), una nicchia. Tale strumento era concesso dalle aziende in base alle necessità dei singoli o come benefit aziendale. I provvedimenti emergenziali, dal 4 marzo 2020 hanno incentivato il ricorso allo smart working, facendo balzare il numero dei lavoratori coinvolti fino a circa 7 milioni. Una vera rivoluzione. Anche le aziende, dal canto loro, hanno ereditato un consistente risparmio che, alcuni osservatori, stimano in 10 mila euro all’anno per ogni dipendente. Insomma un sistema win-win.
Quali problematiche, invece, sono emerse dalla vostra indagine sull’applicazione dello smart working in Italia?
Indubbiamente non è tutto rose e fiori. L’applicazione dirompente di questa nuova modalità di svolgimento della prestazione lavorativa ha dei suoi lati oscuri che, nell’indagine realizzata, emergono chiaramente. Innanzitutto c’è un costo sociale, ovvero tutti quei dipendenti che prima affollavano gli uffici e – come naturale conseguenza– le strade, i negozi e i bar adesso lavorano tutti da casa, con forti ripercussioni economiche sugli operatori commerciali che prima contavano su una clientela giornaliera garantita oggi smarrita.
Il caso più eclatante è la tendenza delle grandi città a svuotarsi, in una emorragia di residenti che, non dovendo più recarsi in ufficio, scelgono di tornare ai paesi di origine dove la vita costa meno e continuando a svolgere ugualmente la prestazione lavorativa in smart working: è il caso ribattezzato del “south working”, ovvero migliaia di dipendenti meridionali assunti nelle aziende del nord che, sfruttando i benefici del lavoro agile, abbandonano le città per tornare al nido natio, ripopolando i borghi abbandonati.
Poi c’è l’aspetto personale, su cui lo studio del nostro Centro Rossitto dedica molta attenzione. Dall’analisi è emersa l’impreparazione dei lavoratori – in termini di formazione e comunicazione – ad affrontare la prima fase emergenziale “agile”, insieme alle preoccupazioni riguardanti la protezione dei dati aziendali (più difficile da controllare a casa che non in ufficio), il possibile controllo a distanza del datore di lavoro sull’operato del subordinato, sino ad arrivare al “tecnostress”, ovvero la sindrome cui può essere sottoposto il lavoratore assoggettato in maniera incontrollata al flusso di dati informativi. Da qui l’esigenza di un diritto alla disconnessione come misura preventiva per tutelare la salute fisica e morale del lavoratore.
Come si sta preparando il mondo dei Quadri e delle professioni intellettuali a questa nuova rivoluzione?
CIU-Unionquadri è l’esempio di aggregazione sociale più avanzato in Italia. Da circa quarant’anni, ci siamo distinti per essere capaci di anticipare sempre i cambiamenti economici, produttivi e sociali del mondo delle elevate professionalità, diffondendo la cultura delle “sinergie professionali” ovvero l’azione combinata di differenti professionalità (la rete, la cooperazione) che potenzia il risultato rispetto a quello che individualmente si otterrebbe.
Molti professionisti che prima lavoravano in contesto, da un anno a questa parte, si ritrovano catapultati in una nuova dimensione “domestica” che, di fatto, accorcia la filiera delle relazioni, molto utili per la loro crescita, personale e di business. Anche la realtà dell’ufficio evolve, con l’introduzione del desk sharing, non più postazione singole ma dematerializzazione di tutti i documenti una volta allocati sui tavoli del singolo e condivisione della scrivania tra più colleghi.
La CIU-Unionquadri sta studiando questi fenomeni e interpretandoli in chiave futura già adesso. Ciò però non significa il tramonto definitivo del lavoro in ufficio, ma solo la necessità di ripensare al contesto, con tutto ciò che ne deriva: tutele sindacali, possibili discriminazioni salariali e di genere, sicurezza dell’ambiente di lavoro e dei dati aziendali custoditi – adesso – tra le mura domestiche. Forte della sua esperienza, CIU-Unionquadri si candida a guidare questa transizione professionale, una nuova dimensione dell’ “ora et labora” benedettino che, dallo scorso anno, è interamente da riscrivere. Il lavoro da casa è qui per restare ma i diritti, l’impegno e la valorizzazione del middle management non può andare in soffitta.