Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me
Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me
Ho assaporato con immenso piacere il “Caffè” quotidiano di Massimo Gramellini. La sua penna, tanto brillante quanto profonda, ha dedicato essenziali ma efficacissimi riferimenti alla figura dimenticata di Alcide De Gasperi. Nel vuoto di leadership che attanaglia da decenni l’Italia ricordare che è esistito uno statista del calibro di De Gasperi è insieme un atto di ottimismo ma anche di spietata denuncia.
L’ottimismo deriva dalla constatazione che l’Italia ha saputo esprimere un leader di statura politica, ideale e morale così elevata da meritare rispetto e ammirazione in Europa e dall’altra parte dell’Oceano. La denuncia riguarda la carenza di una politica lungimirante che sappia volare alto oltre le beghe dei partiti che fanno perdere di vista l’orizzonte più ampio verso cui navigare. Ho ringraziato Gramellini per questa sua riflessione che ci ha autorizzato a riprodurre su questa testata che De Gasperi fondò nel 1952 e che vogliamo far tornare ad essere un punto di riferimento per chi, nel solco della tradizione degasperiana, condivide l’idea di un’Italia rinnovata, ricostruita economicamente e moralmente, europea e legata al mondo libero e democratico.
Proprio quell’Italia, ex-nemico delle potenze vincitrici, che De Gasperi seppe rappresentare con umiltà e orgoglio alla Conferenza di pace di Parigi, in uno storico discorso di cui riportiamo i passaggi
più rilevanti.
Comincia alla Conferenza di Pace di Parigi del 1946 la straordinaria avventura politica di De Gasperi al servizio del Paese. Artefice della ricostruzione nazionale dopo la tragedia del fascismo e della guerra, è stato il più grande statista dell’Italia repubblicana. La sua lungimiranza, la capacità di operare scelte coraggiose e strategiche per il futuro dell’Italia, il rigore morale e il senso dello Stato ne fanno un gigante della politica paragonabile solo a Cavour. De Gasperi, insieme a Luigi Einaudi, pose le basi per l’attuazione di una politica liberale ed europeista che fu il motore del miracolo economico nella seconda metà degli Anni Cinquanta.
Il Discorso di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio, fu pronunciato il 10 agosto 1946 alla Conferenza di pace a Parigi, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale.
De Gasperi dopo una breve introduzione, ricorda che i termini dell’accordo erano già stati faticosamente definiti dalle potenze vincitrici in base a criteri che avevano considerato l’Italia un paese ex-nemico, e questo, per un antifascista come lui, risultava un fatto tragico.
«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[…] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire.»
«Un’Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell’ONU, sotto il patrocinio dei “quattro”, tutti d’accordo nel proporre di bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’art. 2 dello Statuto di San Francisco) in base al “principio della sovrana uguaglianza di tutti i membri”, com’è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente “l’integrità territoriale e l’indipendenza politica” tuttora potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. […] Si può credere che sia così? Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio.»
Il capo del governo italiano fa presente che l’81% del territorio della Venezia Giulia sarebbe stato assegnato agli jugoslavi, rinnegando anche una linea etnica più interna che l’Italia si era dichiarata disponibile ad accettare e addirittura la Carta Atlantica che riconosceva alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali; né tralascia di citare, come esempio non imitato, l’accordo in corso con l’Austria – che poi diverrà l’Accordo De Gasperi-Gruber – per l’autonomia delle popolazioni locali.
«[…] voi avete dovuto aggiudicare l’81 per cento del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi (e anche essi se ne lagnano come di un tradimento degli alleati e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del nuovo Stato); avete dovuto far torto all’Italia rinnegando la linea etnica; avete abbandonato alla Jugoslavia la zona di Parenzo e Pola senza ricordare la Carta atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali; anzi, ne aggravate le condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava, che opteranno per conservare la loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi. Inoltre i loro beni potranno venire confiscati e liquidati come appartenenti a cittadini italiani all’estero, mentre gli italiani che accetteranno la cittadinanza slava saranno esenti da tale confisca. L’effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione del territorio libero, 180 mila italiani rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921); e che il totale degli italiani esclusi dall’Italia, calcolando quelli di Trieste, è di 446 mila; né per queste minoranze avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una generosa revisione delle opzioni, per il quale è stato già raggiunto un accordo su un’ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente»
De Gasperi conclude ribadendo che la veste di ex-nemico delle potenze alleate democratiche non fu mai quella del popolo italiano e riaffermando la fede nella repubblica democratica nata dalle ceneri della guerra nonostante le clausole ingiuste del trattato.
«Signori ministri, signori delegati: per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero dell’Italia sulle condizioni di pace, ed oggi ancora, comparendo qui nella veste di ex-nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano, dinanzi a voi affaticati da lungo travaglio o anelanti alla conclusione ho fatto uno sforzo per contenere il risentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal volere intralciare, ma intendiamo costruttivamente favorire la vostra opera in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo. Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri apertamente contrastanti. Da una parte egli deve esprimere l’ansia, il dolore, l’angosciosa preoccupazione per le conseguenze del trattato, dall’altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.»