Il 10 dicembre del 1948 a Parigi veniva adottata dall’Assemblea generale delle Nazione Unite la
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, votata da 58 paesi dei quali solamente 8 si astennero.
Un passaggio fondamentale che segnò un nuovo corso della storia, con l’obiettivo di superare le tragedie e la barbarie del primo ‘900. Questo passaggio non va dato per scontato, in quanto 58 paesi di tradizioni e sensibilità diverse riuscirono a trovare il compromesso per redigere una lista di 30 articoli che sancivano i diritti fondamentali dell’uomo. La Dichiarazione fece da apripista per numerose altre, come la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la carta di Nizza, la quale ha effetti diretti per gli stati UE, e numerosi altri patti per i diritti della comunità internazionale; essa inoltre ispirò e fu richiamata nelle costituzioni di diversi Stati.
La Dichiarazione, come è scolpito nel preambolo, diede “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili” che costituisce “il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
Furono sanciti dunque principi di libertà e uguaglianza: i diritti individuali, i diritti civili e politici, i diritti economici, sociali e culturali, nonché il divieto di alcune pratiche che fino a quel momento erano utilizzate da parte degli Stati senza particolari scrupoli, come ad esempio la schiavitù o la tortura.
Si tratta di un testo che, a distanza di più di 70 anni, risulta ancora fondamentale per il suo impatto giuridico e politico, come scudo al potere politico e cruciale per orientare l’azione degli Stati. Ci si potrebbe dunque chiedere come Stati di tradizioni culturali, storiche, filosofiche e religiose così diverse siano arrivati a trovare un accordo su questi temi. La risposta sta nella ricerca di un accordo pratico, un accordo sui singoli diritti e sulle singole fattispecie da condannare. Non si è ricercato il fondamento teorico del testo che si andava a redigere, si è passati direttamente alla pratica permettendo così di arrivare a redigere una lista comune, evitando la spinosa discussione sul reale fondamento di ogni diritto. Si è evitato di intraprendere una discussione filosofica sul perché di ogni diritto. Jacques Maritain, grande intellettuale cattolico che prese parte ai lavori, rispose alla domanda sul perché condividesse la dichiarazione, affermando: “possiamo metterci d’accordo senza chiederci il perché”.
Questa costruzione dei diritti umani, nonostante l’assenza di un fulcro comune di pensiero, ha fino ad oggi mantenuto la sua attualità.
L’assenza di una radice comune comincia, però, a farsi sentire sempre più: ogni qualvolta i diritti vanno interpretati dai giudici delle corti e ogni volta che va riconosciuto un diritto precedentemente non previsto come tale, poiché senza radice è complesso individuare quali potranno essere i diritti da difendere. Si sta così generando una situazione di relativismo in cui i diritti umani vengono richiamati per qualsivoglia tema, snaturandoli e facendogli perdere forza. Emerge sempre più la difficoltà a trovare un orientamento condiviso su cosa costituisca realmente un diritto fondamentale.
Una delle conseguenze di questo smarrimento è la svalutazione di alcuni diritti che dovrebbero rimanere ben saldi nel novero dei fondamentali e di contro una costante attenzione a favore di altri maggiormente legati alla tendenza generale del momento, a favore quindi di ciò che più fa notizia. Questo accade costantemente nel dibattito politico e mediatico.
Pensiamo alla libertà religiosa, regina dei diritti. Stando alle statistiche e alle ricerche scientifiche, maggiore è il livello di protezione di essa, maggiore è la tutela degli altri diritti e viceversa ove la libertà religiosa è più duramente calpestata, patiscono anche gli altri diritti. L’attenzione su questa libertà fondamentale dell’uomo, come di altre, viene invece relegata a libertà di minore importanza nel dibattito pubblico.
Vi è il rischio sempre presente che i diritti umani diventino un mero strumento nelle mani del potere politico, economico e culturale dominante e non invece quell’argine fondamentale che mette al centro la dignità della persona umana portatrice di diritti. Senza la radice di questi diritti, senza il perché, c’è il rischio che venga meno la trasmissione di essi di generazione in generazione e che si smarrisca nel tempo la spinta che li ha ispirati. Se vogliamo che essi restino un faro, occorre agire con coerenza, pur nella consapevolezza che è difficile ricostruire ex post quanto è mancato nella fase fondativa.
Eppure ciò è necessario, perché i diritti non sono statici, vanno continuamente interpretati, estesi e bilanciati, e per questo può risultare importante e utile ripensare e ricercare un accordo comune, trovando una coerenza che faccia da radice. Si dovrebbe riaprire un dibattito approfondito intorno ad essi, a tutti i livelli.
La costruzione è fragile ma ancora regge, l’auspicio è che essa non vada in frantumi.