Vivendo in un periodo storico come quello attuale, in cui la politica tende ad essere consumata integralmente nell’istantaneità dell’attimo, potrebbe apparire un paradosso riflettere su una dimensione della memoria nella quale le vicende politiche si costruivano sull’inclinazione a considerarle la base per una continuità di esperienze, animate da dinamicità, intuizione e dalla necessità di un “senso della storia”, che provava ad immaginare ed a sognare il proprio futuro.
Le esperienze politiche che segnarono la vicenda della ricostituzione italiana post-bellica si plasmarono sul senso di continuità che esiste tra quel tempo, il nostro ed il futuro. Una continuità sostanziale, cruciale, fondamentale, che i nostri Padri Fondatori modellarono affinché le generazioni a venire potesse fregiarsi della conquista democratica, facendo avanzare insieme i diritti della persona, della libertà e della giustizia sociale.
Erano gli anni dei “politici di professione” – oggi bistrattati – che vivevano “per” la politica e non “di” politica, convinti che i problemi della società si potessero risolvere con visioni programmatiche a lungo termine, che coniugavano forma e contenuto senza lasciare che il popolo si autoregolasse secondo la logica del pragmatismo spicciolo, come poi avvenuto negli anni della Seconda Repubblica. Un tempo, quest’ultimo, in cui, proprio affidandosi a questa logica, finirono per trionfare gli interessi dei più forti e la prepotenza dell’odio verso l’avversario.
L’attuale generazione politica sembra irrimediabilmente irrigidita e rattrappita in tattiche di corto respiro. Se non risveglieremo la coscienza assopita del nostro Paese, riconquistando lo spirito di sperimentazione, di comunione e di altruismo, finiremo con il considerare noi stessi solo come una popolazione di individui sconnessi, lontana dalla visione dei Padri Fondatori che consideravano il popolo come una rete ineluttabile di mutualità, legata a un unico destino.