Quando alcuni sogni diventano realtà, il risveglio può non essere dei migliori. Di solito capita quando le utopie prendono forma e sostanza. La Brexit non fa eccezione. Il fatto è che le semplificazioni non funzionano perché non riescono ad aderire alla realtà. Il risultato è che per cercare di capire come andrà a finire, ci si aggrappa a tutto.
Per esempio, qualcuno è arrivato a chiedersi se le parole usate da Ursula von der Leyen possano essere interpretate come un segnale di apertura nei confronti del Primo Ministro del Regno Unito, Boris Johnson. Infatti, nell’annunciare l’estensione dei negoziati per trovare un accordo commerciale con la controparte britannica, il Presidente della Commissione Europea ha usato l’espressione: “Go the extra mile”. Perché usare proprio queste parole e non chilometri, si è chiesto un professore di Oxford?
Questa boutade rende bene qual è il sentimento generale. Che la Gran Bretagna abbia lasciato l’Unione Europea è un fatto. Si tratta di vedere però in che termini. Per questo sono molti coloro che si chiedono: perché continuare a mantenere un atteggiamento di rottura che non è nell’interesse di nessuno? Perché continuare a evocare lo spettro del no-deal per fare cappotto con il rischio di una rottura geopolitica pesantissima? Hanno ottenuto quello che volevano, che senso ha estremizzare? Non stupisce perciò che in tendenza su Twitter ci sia #BorisJohnsonMustGo.
Non a caso uno dei primi a parlare sulla necessità di estendere il confronto e scongiurare un’uscita senza accordo è stato il Primo Segretario di Stato, Dominic Raab, uomo dell’ultradestra conservatrice, mandato in avanscoperta da Johnson, sempre meno amato in patria sia dai membri del Partito Conservatore, tanto nelle alte sfere quanto da una base che conta sempre più membri che ne stracciano la tessera, sia dall’altra parte di mondo che fatica a capire. Prendi, per esempio, i business che stanno implorando chiarezza nelle regole.
Il parlamentare laburista Ed Miliband, intervistato nella mattinata di Domenica nella celebre trasmissione The Andrew Marr Show ha sottolineato come in ballo, insieme alla chiarezza delle regole, ci siano gli standard con cui le prossime generazioni si troveranno a fare i conti.
E sono proprio le nuove generazioni, come ha mostrato il Sunday Times, quelle più in apprensione per l’impatto futuro dei termini con cui Regno Unito ed Unione Europea decideranno di lasciarsi. Da recenti analisi, inoltre, emerge fortissimo lo scontro generazionale che ha caratterizzato il voto del referendum, con gli over 65 a pieno supporto di una Brexit hard, nazionalista, senza accordo e le nuove generazioni che vedono questo possibile scenario come un incubo. D’altronde non potrebbe essere altrimenti per i nativi digitali, nati e cresciuti nel mondo senza confini di Internet.
Come andrà a finire nessuno può saperlo ed è stato da sempre così. A guardare bene, nessuno ci credeva a questa storia della Brexit, da Farage al gotha dell’establishment finanziario che solo a cose fatte avrebbe scoperto che un disagio, forte, c’era, in una popolazione fiaccata da anni austerità. Chissà cosa starà pensando Cameron, che a pagina 683 delle sue memorie ha confessato: “I miei sensi di colpa per quanto accaduto cominciarono a scavarmi dentro”.
Se c’è una lezione in questa storia in fondo è questa: il genio dei grandi statisti è saper unire, non dividere. De Gasperi docet. Perché altrimenti poi si arriva a un punto in cui tutti hanno ragione e, paradossalmente, si perde tutti. Me and EU.