Il Censis (Eni sponsor e Agi-Agenzia italiana sponsor tecnico) ha realizzato uno studio volto a individuare i nervi scoperti che hanno comportato rallentamenti e malfunzionamenti nella gestione dell’emergenza legata al virus del Covid-19.
Il progetto “Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020”, si prefigge di esplorare le varie dimensioni socio-economiche dell’Italia. Una di queste è proprio l’istruzione terziaria, con particolare riguardo al sistema universitario.
La pandemia non ha fatto altro che portare alla luce i problemi strutturali che da decenni affliggono il nostro Paese, impedendo il suo potenziale sviluppo e lasciandolo sempre un passo indietro rispetto a molti Paesi. Le differenti opinioni che in queste settimane hanno animato il dibattito pubblico convergono tutte su un punto cruciale: il capitale umano. Per poter innovare il Paese, implementarne la produttività nel medio e lungo periodo e ottimizzare gli investimenti da parte di attori pubblici e privati, la precondizione è rappresentata dalla valorizzazione del capitale umano.
Riconoscere la sua centralità vuol dire ammettere che gli investimenti in formazione e ricerca sono la priorità.
Dei segnali di ripresa rispetto al 2009 ci sono: l’anno accademico 2019/2020 registra un incremento degli immatricolati alle università italiane, con +3,2% rispetto all’anno precedente. Per eguagliare la media europea entro il 2025, però, in Italia ci dovrebbe essere un aumento medio annuo di immatricolati del 2,2%, equivalente in valore assoluto a circa 7.000 individui in più.
Il che vuol dire, in termini monetari, un volume di spesa aggiuntiva di oltre 49 milioni di euro ogni anno (importo stimato sulla base dei dati Ocse 2017, relativi alla spesa nazionale per singolo studente universitario).
Seppure, quindi, la quota di immatricolati sia in crescita, occorre ancora fare tanto per ridurre il gap che ci separa dal resto dei Paesi dell’Unione europea per numero di giovani con titolo di studio terziario.
Nel 2019 i giovani italiani di età compresa tra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo d’istruzione terziaria erano il 27,7% del totale dei giovani in età corrispondente, ovvero una quota inferiore di 13,1 punti percentuali rispetto alla media Ue28 pari a 40,8% e in penultima posizione rispetto agli altri Stati comunitari, dopo l’Italia soltanto la Romania con il 25,5% di giovani.
Come per gli altri Paesi Ocse, anche in Italia è in aumento la domanda potenziale di istruzione terziaria (è passata dal 40,9% del 2009 al 63,1% del 2018). Ma a mettere in allerta, come sempre, è il confronto con la realtà: dieci anni dopo, la quota di 25-34enni in possesso di un titolo di studio terziario è inferiore di oltre 13,1 punti percentuali.
Una tema dovrebbe, pertanto, essere approfondito, ossia quali fattori intervengono nel generare un differenziale tra desiderio di accedere all’istruzione terziaria ed effettivo conseguimento del titolo accademico.
In linea di massima, sono i diplomati presso istituti tecnici o professionali a immatricolarsi meno.
Viene da pensare, di conseguenza, che a influire sulla bassa quota di immatricolazioni è l’offerta formativa: la ridotta disponibilità, in Italia, di corsi terziari di ciclo breve e professionalizzanti universitari e non universitari, più diffusi, invece, all’estero.
Altro elemento da considerare, inoltre, per analizzare l’andamento delle immatricolazioni e del conseguente ottenimento del titolo accademico, sono le politiche adottate da un Paese per garantire il diritto allo studio.
Il Global Social Mobility Index 2020, un indice ideato dal World Economic Forum per misurare la mobilità sociale, prendendo in considerazione le policy, le prassi e le istituzioni che intervengono a determinare la misura in cui ogni individuo, a prescindere dalla propria condizione socio-economica, familiare e geografica, ha la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, può dirci molto al riguardo.
Stando a questa analisi, l’Italia si colloca al 34° posto di una graduatoria internazionale calcolata su 82 Paesi, dopo Israele e prima dell’Uruguay, ma decisamente distante da Danimarca, Norvegia e Svezia che occupano le prime tre posizioni.
Il motivo è facilmente intuibile: nel 2018 solo lo 0,3% del PIL è stato destinato all’istruzione terziaria, meno rispetto a tutti gli altri 27 Stati membri dell’Ue. Relativamente al diritto allo studio, i dati rilasciati dal Miur segnalano che nell’anno accademico 2018-2019 solo l’11,7% degli iscritti è risultato beneficiario di una borsa di studio, con grandi disparità geografiche (la quota scende al 9,1% nelle regioni del Nord-Ovest e del Centro e sale al 13,4% nel Nord-Est e al 15,3% nel Sud e Isole).
Numeri che mostrano, ancora una volta, il profondo distacco rispetto ad alcuni Paesi Ue; è beneficiario di una borsa di studio il 12,0% degli studenti italiani a tempo pieno, iscritti a corsi di laurea del primo livello, contro il 22,0% di beneficiari in Germania, il 33,0% in Francia e il 28,0% in Spagna (Eurydice – Commissione Europea).
Una gestione imprevidente delle risorse destinate all’istruzione e alla tutela di tale diritto non fa altro che bloccare il potenziale sviluppo di competenze da parte delle risorse umane e conseguentemente del Paese. Gravare sulle famiglie accresce le iniquità e impedisce l’ampliamento nell’accesso all’istruzione, e la crisi economica generata dal Covid-19 ha aggravato ulteriormente la situazione.
Le misure previste dal Decreto Rilancio (ad esempio, lo stanziamento di risorse aggiuntive per il diritto allo studio di circa 40 milioni di euro, l’innalzamento della no tax area da 13 a 20 mila euro e la riduzione delle tasse per gli studenti con ISEE tra i 20 e i 30 mila euro), sono un inizio, ma per favorire l’accesso all’istruzione in maniera equa, al pari dei principali Paesi Ue, sono necessari interventi strutturali di lungo periodo.