La democrazia pluralista e poliarchica con il confronto tra posizioni diverse, la separazione dei poteri dello Stato, i pesi e contrappesi, è messa a dura prova dalla tentazione di affidarsi ad “un uomo solo al comando”. È una tentazione che sta prendendo piede e che, probabilmente è anche alla base della simpatia crescente verso la Russia di Putin.
Di recente, il politologo Angelo Panebianco si è chiesto sul “Corriere della sera” quale sia la causa di questa attrazione fatale esercitata da Putin su alcuni leader politici europei e non ha trovato una risposta univoca.
In realtà le simpatie verso Putin non sono legate all’antiamericanismo ma alla capacità dimostrata dal leader di Mosca di guidare con piglio deciso un Paese complesso. Quello che esercita sempre più una malìa sull’opinione pubblica è l’idea che un potere cesaristico, carismatico e autoritario sia preferibile alle lungaggini, incertezze, compromessi della democrazia pluralistica.
L’idea che a comandare debba essere uno solo non esprime di per sé voglia di dittatura.
Esistono regimi non dittatoriali, ma dispotici in cui il capo del governo è depositario di poteri quasi assoluti, pur dovendo confrontarsi con un Parlamento in cui sono presenti partiti non tutti a lui favorevoli.
Un uomo solo al comando può anche essere eletto democraticamente e coesistere con un barlume di pluralismo. Le democrazie totalitarie prevedono elezioni, più o meno libere, ma poi a comandare è sempre una persona: sentendosi investito da un plebiscito di consensi, dati alla sua persona più che al partito, il “Capo” esercita il potere non più secondo le regole -ammesso che siano ben fatte- ma forzandole. E come giustifica questa forzatura? Dicendo: “il popolo sta con me, mi ha votato perché faccia tutto questo, del resto me ne frego”.
Questa versione del cesarismo e del dispotismo è strettamente legata al dilagare del populismo che il vero cancro della democrazia pluralistica. L’idea mistica e mendace che il popolo sia quello che esprime la maggioranza e non sia anche quello che esprime la minoranza, che il popolo della maggioranza deleghi -di fatto- la propria sovranità non al Parlamento o alle istituzioni ma alla persona vincente, al capo o Capitano che sia, finisce per legittimare poi qualsiasi appropriazione indebita del potere da parte dell’Uomo solo al comando.
Cosa c’entra tutto questo con l’Italia? C’entra molto. Nelle ultime elezioni politiche ed europee abbiamo assistito a consistenti spostamenti dell’elettorato che si indirizza non tanto verso un partito che sembra avere le idee più convincenti quanto verso la persona, il Capo, che ha il migliore eloquio, la più efficace verve polemica, il linguaggio più semplificato e diretto i modi più spicci per far capire cosa farebbe se avesse ampi poteri.
È successo con Renzi nel 2014: il 41% conquistato all’improvviso alle elezioni europee fu un plebiscito verso di lui non verso il PD. Gran parte dell’elettorato aveva deciso di affidarsi a quel leader perché catturava l’attenzione come nessun altro avesse mai fatto prima: neanche Berlusconi che è stato il primo leader a cercare un dialogo diretto col “popolo” scavalcando i riti dei partiti tradizionali, era riuscito a coagulare tanto consenso in un sol colpo.
Lo stesso fenomeno si è verificato alle elezioni politiche del 2018, quando il giovane leader del M5Stelle, non a caso denominato “Capo politico” ha conquistato un 33% proprio sulla scommessa che egli sarebbe stato capace di interpretare il disagio e i sogni del “popolo”.
E pochi mesi fa, alle elezioni europee il fenomeno si è ancora una volta ripetuto con l’exploit di Salvini, ancora in ascesa, stando ai sondaggi che ora lo accreditano intorno al 40%.
Gli elettori italiani sono diventati banderuole o matti senza identità che passano a cuor leggero da un leader all’altro senza motivo?
Il motivo di queste oscillazioni rapide è la diffusione dell’idea -sbagliata- che un uomo solo al comando possa essere la soluzione. E il voto si indirizza, con effetto gregge, verso questo uomo a prescindere dal suo partito o dal dettaglio delle sue idee.
La diffusione dei social che hanno sostituito indegnamente l’intermediazione dei giornali e dei veri opinion leader facilita il successo degli aspiranti capi “one man show” che manipolano la comunicazione social senza preoccuparsi se quel che dicono sia vero o meno: l’importante è che funzioni. Questi aspiranti Cesari, che non hanno granché sudato per dimostrare le proprie capacità, sono effimeri, transeunti, facilmente intercambiabili: oggi uno, domani un altro. È il populismo, bellezza, direbbe se fosse ancora con noi il professor Giovanni Sartori.
Ma questo populismo che vive del mito dell’uomo solo al comando è anche il carnefice non solo dei Capi che lo deludono ma anche della democrazia poliarchica e pluralista che assicura scelte condivise e non imposte da diktat, rispetto delle regole e non abusi autoritari, una convivenza civile basata sulla discussione e il rispetto reciproco e non sull’inganno, l’ingiuria e la sopraffazione.