Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte (Cost. Art.27).
È la prima Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione che, con ordinanza n.18518 del 3-18 giugno scorso (2020), ha chiesto, in sostanza, alla Corte Costituzionale, di cancellare dal nostro ordinamento il “fine pena mai”, a cui è sottoposto, di fatto, il detenuto, con ergastolo ostativo, in palese contrasto con fondamentali principi sanciti nella nostra Carta Costituzionale.
A sollevare il problema, in effetti, è stata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione I, con sentenza del 13 giugno 2019, con la quale ha affermato, in sintesi, che anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a concrete possibilità di liberazione, attualmente eccessivamente limitate perché subordinate a comportamenti specifici, quali collaborazione con la giustizia o pentimento di dissociazione di appartenere ad organizzazioni criminali di stampo mafioso.
È stato un detenuto afflitto da ergastolo ostativo, tramite il suo difensore, a presentare ricorso in Cassazione, per motivi dì legittimità, lamentando che, per concorso di pena per fatti delittuosi di cui all’articolo 416/bis del codice penale, pur avendone maturato i requisiti, non gli erano stati concessi i benefici di legge di cui aveva fatto specifica domanda.
La Suprema Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso, ha ravvisato che l’articolo 416/bis del codice penale ed alcuni altri articoli dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975 e successive modificazioni ed integrazioni), quali gli articoli 4/bis, 41/bis ed altri, sarebbero in contrasto con i principi costituzionali di cui all’articolo 3 (eguaglianza e dignità dei cittadini davanti alla legge), all’art.13 (che persegue la violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà), all’art. 27 (pene con trattamenti non contrari al senso di umanità e tendenti alla rieducazione del condannato) ed all’art. 111 (ragionevole durata del processo).
La Sezione I penale della Cassazione ha, quindi, inoltrato il tutto, con l’ordinanza di cui sopra, alla Corte Costituzionale per pronunciarsi se vi siano o meno gli estremi della ”non manifesta infondatezza di dubbi dì incostituzionalità delle norme suddette”, nelle parti in cui sono di preclusione alla concessione della liberazione condizionale o dei permessi per buona condotta.
Nella posizione di aspettativa di benefici come il ricorrente ve ne sarebbero tanti altri, circa 250 ergastolani che sperano nella positiva pronuncia interlocutoria, da parte della Consulta, sull’accoglimento dei dubbi di incostituzionalità evidenziati dalla Cassazione, a cui dovrà seguire la relativa sentenza, salvo che, nel frattempo, non vi siano interventi legislativi specifici, anche su proposta del Ministro della Giustizia.
Sono in gioco principi di civiltà giuridica sanciti nella nostra Carta costituzionale, tra cui quello dell’ultimo comma del citato articolo 27 che così recita:
“Non è ammessa la pena di morte.” Ma l’ergastolo ostativo è come una condanna a morte mascherata, mentre il comune ergastolano, anch’egli condannato a pena perpetua, ha il diritto di uscire di galera dopo 26 anni di detenzione, riducibili a 21, con il meccanismo di sconti di pena, per buona condotta nella vita carceraria in virtù della sentenza n. 264/1974 della citata Corte Costituzionale, in linea col principio rieducativo del condannato per il reinserimento nella società, il cui percorso è affidato alla guida di esperti, sotto il responsabile controllo del Giudice di sorveglianza.
In sostanza, già la Corte di Strasburgo, nella sua giurisprudenza, sostiene che il carcere a vita è possibile in diritto, purché di fatto ci sia la possibilità, ancorché condizionata, di scarcerazione. Diversamente la detenzione a vita viola il divieto di pene inumane o degradanti (articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).
È ribadito che la dignità umana non si acquista per meriti ne’ si perde per demeriti, per cui anche l’ergastolano non collaborante ha diritto di domandare, benché non il diritto di ottenere.
La sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale ha, infatti, vanificato la presunzione legale secondo cui chi non parla, non collabora con la giustizia, pur potendolo fare, è socialmente pericoloso.
La Corte costituzionale ha censurato tale automatismo che negava, in pratica, rilevanza giuridica al processo dì risocializzazione del detenuto.
Il beneficio penitenziario, quindi, si sposta dalla collaborazione alla valutazione del Giudice di sorveglianza.
In merito, anche la Commissione Parlamentare antimafia, nella sua relazione del 20 maggio scorso, ha fatto rilevare di aver tenuto conto della giurisprudenza delle due Corti dei diritti, secondo cui la preclusione, in mancanza di collaborazione, non è più compatibile con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Sarà una corsa ad ostacoli a chi arriva prima, se la pronuncia della Corte costituzionale o un intervento legislativo. Normalmente, in questi casi, il legislatore prudente attende la pronuncia della Corte Costituzione per meglio colmare i vuoti legislativi che essa crea ed armonizzare, in tal senso, le diverse norme tra loro collegate e, spesso, interdipendenti.