sabato, 23 Novembre, 2024
Politica

Un anno dopo e due anni prima

A fine agosto del 2019 Salvini, al culmine della sua galoppata che gli aveva fatto raddoppiare i voti alle Europee e aumentare a dismisura i consensi nelle spiagge d’Italia, faceva harakiri e perdeva la partita a poker nel tentativo di far cadere il governo e andare alle elezioni per ottenere gli agognati e incostituzionali “pieni poteri”.

Da allora tante cose sono cambiate nella confusa politica italiana. Il Pd, che sembrava confinato nel ruolo di debole opposizione è tornato protagonista ed è riuscito a fare quello che nessuno avrebbe mai immaginato: allearsi col principale nemico, quei 5 Stelle che lo avevano demonizzato come il peggiore dei mali possibile.

Per converso, i seguaci di Grillo, con una piroetta di 180°, hanno obbedito all’ordine del padre fondatore e hanno abbandonato Salvini alla sua sorte per creare un’inedita alleanza sulla cui durata nessuno scommetteva più di tanto.

Paradossalmente, uno dei principali sostenitori di questa alleanza era proprio Renzi, che era stato ampiamente contrastato e dileggiato dai 5 Stelle.

Zingaretti non era convinto di questa mossa ma, ben consigliato da Franceschini e Bettini, alla fine accettava. Di Maio non era convinto che fosse la scelta giusta per lui: Salvini gli aveva offerto la Presidenza del Consiglio, ma alla fine il capo politico era costretto a cedere alle pressioni di Grillo e di gran parte del Movimento.

Conte aveva capito di poter essere l’ago della bilancia della nuova alleanza e, con una prontezza degna del più smaliziato politico, si era trasformato nel grande accusatore del suo vice presidente, e si era proposto come garante dell’equilibrio della nuova maggioranza.

Nato in fretta e furia, anche perchè incombeva la legge di Bilancio, il Governo Conte 2 ha subito due prime emorragie, l’uscita di Calenda dal Pd, ostile all’accordo di Governo, e la scissione di Renzi che, votata la fiducia a Conte,  decideva di abbandonare il partito che non aveva mai amato e da cui non era stato mai amato. La prima grande svolta del Governo avveniva in Europa. Dal contrasto polemico al limite della rottura con Bruxelles, imposto da Salvini e seguito da Di Maio, si passava al dialogo, alla ricerca di un’intesa, al voto a favore di Ursula von der Leyen e al conferimento a Gentiloni del prestigioso incarico di Commissario agli affari economici.

Sanate le ferite che avevano portato nel 2018 l’Italia sull’orlo di una procedura per deficit eccessivo, il Governo otteneva da Bruxelles ampi spazi di manovra finanziaria e si avviava a progettare una fase nuova. Ma il Pd doveva pogare parecchi prezzi ai 5 Stelle: votare l’assurda legge costituzionale sul taglio dei parlamentari, frenare sulla revisione delle leggi salviniane sull’immigrazione e sui diritti civili, avviare trattative estenuanti per trasformare i tanti “no” dei 5 stelle in “ni” con la speranza di farli diventare “si”.

Il tema delle alleanze locali diventava la buccia di banana su cui crollava la leadership di Di Maio, apertamente contestata da un redivivo Di Battista. Alla vigilia delle elezioni di gennaio, davanti alla certezza di una totale débacle alle regionali, Di Maio lasciava. Poi è arrivato il virus. la politica ha abbassato i toni, mentre Conte è cresciuto nella visibilità popolare ed europea. La gestione della pandemia ha portato acqua al mulino del Presidente del Consiglio e convinto Renzi a rimandare ad altra data un’offensiva che oggi sarebbe stata perdente.

Nel frattempo Salvini, persa la battaglia in Emilia Romagna, batteva in ritirata nei sondaggi e una fronda interna, silenziosa, ma non per questo poco incisiva, cominciava a indebolire il suo ruolo di indiscusso capitano non più vincente.

E siamo ad oggi. Un anno dopo, Di Maio e Salvini sono delle anatre zoppe, Conte è in buona tenuta, Zingaretti comincia a far sentire la sua voce e a chiedere ai 5 Stelle un’alleanza politica. A destra, brilla l’astro di Giorgia Meloni in forte ascesa e con abili distinguo da Salvini, mentre Berlusconi, nonostante alcune sagge prese di posizione, non riesce a svincolarsi dall’asse con la destra che soffoca quel che resta di Forza Italia.

Tra un mese si vota per le regionali e il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. In tanti si affannano a prefigurare sconquassi se il Pd dovesse perdere una o più presidenze di regioni e se i No dovessero sconfiggere la riforma voluta dai % Stelle.

Non succederà nulla. Per il semplice motivo che in Parlamento non c’è una maggioranza diversa da quella attuale e che i 209 miliardi dell’Europa non arriverebbero se al Governo tornassero sovranisti anti-Europa e se l’instabilità rendesse poco credibile qualsiasi impegno del nostro Paese con Bruxelles.

Fra un anno esatto (agosto 2021) scatterà il semestre bianco durante il quale il Presidente della Repubblica non potrà sciogliere le Camere. A gennaio 2022 sarà eletto il successore di Mattarella che difficilmente avrà voglia di mandare a casa il Parlamento in anticipo di un anno sulla scadenza naturale della legislatura.

Non c’è grande spazio per manovre contro il Governo attuale e per nuove maggioranze o elezioni. C’è spazio solo per costruire nuove possibili aggregazioni che rappresentino fasce di elettorato deluso o sottorappresentato e per avviare un serio ripensamento sia nelle varie anime della sinistra sia nel magmatico Movimento percorso da terremoti interni.

Invece di perdere tempo a lavorare per un’instabilità politica senza sbocchi non sarebbe meglio rassegnarsi a governare bene per i prossimi due anni e mezzo in santa pace pensando, una volta tanto, a risistemare l’Italia e non a imbastire inconcludenti e dannose congiure di Palazzo?

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