Come sta la famiglia Italia? Come si sta attrezzando per affrontare l’onda d’urto della crisi economica d’autunno e la necessaria ripresa e ricostruzione del Paese?
Per ora male, molto male.
Evocare l’immagine della famiglia quando si parla della nostra collettività nazionale non mi sembra improprio, visto che per noi italiani l’istituzione familiare, nonostante tutto, è sempre quella cui facciamo più riferimento.
Siamo abituati a pensare in termini di famiglia, di solidarietà che la anima e della sicurezza collettiva che ci dà farne parte. Senza la famiglia ci sentiremmo perduti, sradicati, senza protezione psicologica e anche materiale.
Certo, c’è anche la malefica idea mafiosa di famiglia, c’è il familismo amorale che piega le regole sociali e statali agli interessi del ristretto nucleo dei parenti. Ma la sana idea della famiglia è ancora uno dei punti di riferimenti della nostra vita pubblica e privata.
La “famiglia Italia” ha poca coscienza di sé stessa e non si percepisce come tale, salvo nei rarissimi momenti di eccitazione e di paura collettiva. Tendiamo, invece, a sentirci come tante famiglie in lotta tra loro, ognuna intenta a coltivare il proprio orticello, nella migliore delle ipotesi senza disturbare quello altrui, ma privi di una visione di insieme che ci faccia percepire come una comunità in cui gli interessi principali sono condivisi e vanno raggiunti insieme.
Gli aggettivi roboanti per definire la crisi sanitaria, economica e sociale di questi mesi si sono sprecati. Ma a questa retorica della gravità assoluta e della eccezionalità storica non ha fatto seguito un atteggiamento collettivo coerente.
Se il disastro è epocale si può affrontarlo con la solita inconcludente pratica di tutti i giorni fatta di tutela pidocchiosa di interessi particolari, senza avere il senso dello Stato e del destino che ci accomuna?
Purtroppo è quello che sta succedendo. Nella politica, a parte la sordina imposta dal terrore delle centinaia di morti quotidiane nei mesi di marzo e aprile, il clima tra maggioranza e opposizione non è per niente cambiato. E non è cambiato neanche all’interno della stessa maggioranza, in cui sono ripresi giochi e giochetti di parte, sgambetti e imboscate che sembrano davvero poco divertenti in una fase delicatissima del Paese.
Manca la percezione del passaggio storico che stiamo vivendo e manca la visione giusta per affrontarlo.
Se la politica sembra essere rimasta prigioniera della sua autoreferenzialità e della sua nevrosi che genera instabilità permanente, qualche segnale sembra venire dal mondo di quelle che si chiamavano un tempo le parti sociali, cioè impresa, commercio, artigianato da un lato e sindacati dall’altra. Si tratta di timidi segnali che vanno in un senso diverso da quello della politica.
Gli imprenditori sulle cui spalle grava la responsabilità di creare opportunità di lavoro e ricchezza per il Paese hanno fatto capire che non vogliono essere più subalterni alla politica e che vogliono giocare il proprio ruolo in modo forte e responsabile. Ci si aspetta da loro che non giochino più di rimessa rispetto al Governo ma che facciano proposte lungimiranti per costringere la politica a misurarsi con problemi concreti senza rinviare sine die le soluzioni.
I sindacati, da parte loro, sembrano voler tornare ad essere protagonisti delle scelte sul futuro del Paese. In questo senso va interpretata l’interessante proposta della leader della Cisl Annamaria Furlan sulla partecipazione dei lavoratori alla governance delle aziende, a partire da quelle in cui lo Stato è presente in modo significativo.
Questo modello in Germania ha dimostrato di funzionare bene e potrebbe essere l’occasione per rendere maggiormente corresponsabili nelle scelte delle aziende coloro che ci lavorano.
Imprenditori e sindacati devono abbandonare i riti e le maschere del passato, che li hanno visti sempre inutilmente contrapposti, e fare fronte comune per richiamare la politica alle proprie responsabilità
L’Italia ha bisogno della condivisione e della concertazione delle scelte, non in ottica corporativa inconcludente ma con la visione comune che questo passaggio storico drammatico impone.
In realtà toccherebbe alla politica dare il “la”, la giusta intonazione al nuovo clima di lavoro comune che è necessario. Ma se la politica non lo fa, che siano le parti sociali e prendere in mano il vessillo della concertazione e della ricostruzione solidale della famiglia Italia.
Scrivi all’autore dell’articolo