È sempre più evidente e consistente, in concreto, il divario ed il distacco tra eletti ed elettori, benché facenti parte del medesimo aggregato sociale. Perché tutto questo?
È un bel rompicapo all’italiana maniera cercare di darsi una risposta e, soprattutto, individuare quali sono le cause generatrici, nonostante oltre due lustri or sono, esattamente il 2 maggio del 2007, i due giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, pubblicarono un “libro-inchiesta” dal titolo “La casta”, definendo i politici italiani intoccabili, mettendo in luce sprechi, scandali e privilegi ingiustificati.
Cosa sia cambiato, in positivo, in questo lasso di tempo è difficile dirlo, ma poco o nulla. Prova ne è che gli elettori sono sempre più arrabbiati nel vedere soffocati i loro diritti e le loro aspettative, queste ultime, elargite sotto forma di promesse, senza alcuna prudenza, nelle campagne elettorali nelle varie piazze, sui giornali e nelle TV, per raccattare consensi.
Ma le promesse sono debiti e di debiti lo Stato ne ha acculato davvero tanti, da ipotecare persino il futuro dei nostri nipoti e pro-nipoti, benché sembra che questo aspetto abbia poca attenzione. Si dice che chi vivrà vedrà.
Il metodo per ottenere consensi e cercare di incantare l’opinione pubblica è sempre lo stesso: alzare la voce e sparlare contro l’avversario. È una sistematica lotta intestina, fino al punto di invocare, a giorni alterni, nuove elezioni.
Strillano dicendo “…vogliamo elezioni subito …”, …la palla passi agli elettori…”, nonostante loro abbiano già fatto le loro scelte, a tempo debito, nel segreto delle urne, assolvendo il loro dovere, secondo coscienza, o più esattamente, secondo quello che ogni candidato raccontava nella campagna elettorale e, spesso, anche in privato, con volantini nelle cassette della posta o col “passa parola”. A cosa sia servito non è dato sapere.
Sta di fatto che ogni partito o coalizione cerca il massimo dei consensi, perché possa decidere da solo, nella piena autonomia ed indipendenza, con una opposizione debole che non possa avere voce e neanche un megafono per segnalare i bisogni reali della collettività, anche se di una minoranza.
Nelle aule del Parlamento assistiamo a spettacoli, a volte, indecorosi sia nel linguaggio e sia nella gestualità, comprese vere e proprie aggressioni fisiche di massa, un vero bullismo politico e non ci sono regolamenti e sanzioni che possano contenere questi comportamenti, che arrivano in tutte le famiglie e nelle ore più disparate della giornata.
Nel contempo, si pretende, giustamente, di condannare severamente, spesso minorenni che mettono in atto simili comportamenti nei confronti di qualche compagno di scuola preso di mira. In quel caso la colpa è della famiglia, della scuola, della società.
Non ci si rende conto che la società si nutre e vive di esempi ed il primo esempio di correttezza spetta alla nostra classe politica, ai nostri Parlamentari, scelti uno ad uno dai dirigenti di Partiti e Movimenti e proposti agli elettori, in buona fede, come loro rappresentanti della Nazione per esercitare le loro funzioni, addirittura, senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.) e con una tutela giuridica di immunità di cui all’ombrello protettivo del successivo articolo 68 della Costituzione e cioè che:
“I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
Ma per esercitare il loro mandato i parlamentari hanno davvero bisogno di una protezione sul linguaggio?
C’è coincidenza di affinità elettive nel senso che ognuno si sceglie la persona che più gli somiglia come usi e costumi? Oppure il rappresentante parlamentare è persona al di sopra e al di fuori di qualsiasi paragone o similitudine con quelle che l’hanno eletto?
Per affrontare tale ragionamento si dovrebbe scomodare più di una figura esperta, magari in sociologia, in psicologia, in comunicazione sociale od altro.
Analizzando alcuni momenti storici e qualche fattore di rottura verso il cambiamento, è d’obbligo un richiamo alla fonte primaria che ha sancito il criterio di composizione del Parlamento e, più esattamente, del Senato della Repubblica, post fascista.
Si tratta della III disposizione transitoria e finale della Costituzione che così recita:
“Per la prima composizione del Senato della Repubblica sono nominati senatori, con decreto del Presidente della Repubblica, i deputati dell’Assemblea Costituente che posseggono i requisiti di legge per essere senatori e che:
- sono stati Presidenti del Consiglio dei ministri o di Assemblee legislative;
- hanno fatto parte del disciolto Senato;
- hanno avuto almeno tre elezioni, compresa quella dell’Assemblea Costituente;
- sono stati dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926 (subentro del regime fascista);
- hanno scontato la pena della reclusione non inferiore a cinque anni in seguito a condanna del Tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato.
Sono nominati altresì senatori, con decreto del Presidente della Repubblica, i membri del disciolto Senato che hanno fatto parte della Consulta Nazionale.
Al diritto di essere nominati senatori si può rinunciare prima della firma del decreto di nomina. L’accettazione della candidatura alle elezioni politiche implica rinuncia al diritto di nomina a senatore.”
Sembra un vero concorso selettivo per titoli e meriti. In realtà si tratta di individuare persone affidabili, al di sopra di ogni sospetto, dotate di particolari attitudini e capacità a rappresentare il popolo italiano, specie nella fase iniziale della “ricostruzione” dello Stato di diritto e della sua complessa macchina organizzativa ed amministrativa.
Per la Camera dei deputati l’assemblea costituente varò una legge elettorale proporzionale, con le relative regole per le candidature.
La selezione rigorosa dei candidati a rappresentanti del popolo non dovrebbe essere un criterio eccezionale, ma la regola generale, mentre, nel tempo, le regole e le buone pratiche sono state applicate con disinvoltura, ovvero sostituite.
Basti pensare a quante leggi elettorali sono stati varate nel tempo dopo la normativa base consacrata nel Testo unico n. 361 del 30 maggio del 1957.
Se ci si litiga, in Parlamento, con linguaggio scurrile e di cattivo esempio, come in questa legislatura, ancora a metà strada, la colpa è sempre della legge elettorale.
Poco importa se essa, come l’attuale, sia nuova di zecca, denominata col nome del suo ideatore “ROSATELLUM”. Si parlò sin dal risultato, non affatto soddisfacente per i proponenti, del suo cambiamento.
Si afferma che non garantisce la governabilità del Paese, mentre si continua a litigare, usando linguaggio indecoroso e fornendo un pessimo esempio agli elettori ed a quelli prossimi che lo diventeranno.