Non vorremmo che, a consuntivo della zuffa fra i partiti della maggioranza il Decreto sulla semplificazione mutasse in quello delle complicazioni o che, come un virus tramortito, perdesse tutto il suo potenziale di superamento, se non di rottura, di schemi e di comportamenti non più sostenibili, specialmente di fronte alla crisi nella produttività e nell’economia provocate dalla pandemia.
Prima di dissipare le occasioni rappresentate dalla proposta di Conte, fatte salve le osservazioni sensate di alcuni suoi interlocutori, sarebbe bene che i protagonisti di questo interminabile susseguirsi di pregiudiziali e di riserve riflettessero non solo sul dato della dimensione, il 7,8%, di una disoccupazione che rischia di ingigantire in autunno, ma anche sugli aspetti più preoccupanti dell’attività benemerita ed incessante della Caritas.
E proprio da questa fonte viene la segnalazione che nella massa dei nuovi poveri che vi si rivolgono ben il 61,6% è costituito da italiani, con un indice di incidenza sulle nuove povertà pari ad 1 su 3 degli assistiti.
Vanno quindi spazzati via i grovigli di norme e di competenze che impediscono la realizzazione di opere pubbliche già finanziate da anni o che stanno rendendo lento, frustrante e impopolare il meccanismo di distribuzione degli interventi diretti a sostenere disoccupati, gestori di partite iva e piccoli imprenditori.
Anche perché non è pensabile che tutto si debba ridurre ad un sistema arrugginito e pieno di buchi di pura politica assistenziale; la ripresa deve poggiare sulla nuova vitalità delle imprese e su una ritrovata efficienza della pubblica amministrazione, non nelle attese di un improbabile stato-mamma che, peraltro, ha già il seno avvizzito.