La cultura moderna, rompendo col passato e la tradizione, si è posta due obiettivi: la libertà e la felicità.
Ma a conti fatti, l’uomo attuale non ha raggiunto né la libertà, né la felicità. Anzi, la libertà ha lasciato il posto alla “società delle pulsioni dell’io”, all’individualismo di massa, alla mistica dei desideri che devono diventare diritti, alla morte “venduta” come amore. E per quanto riguarda la felicità, parlano i numeri. In Italia, ad esempio, da quando è stata approvata la legge sull’aborto abbiamo avuto 6 milioni di morti, di bambini non nati, soppressi. E ancora: 7 milioni di persone che abitualmente fanno uso di sostanze stupefacenti, 8 milioni di single, ossia persone che non riescono ad avere rapporti autentici con nessuno, e 13 milioni che fanno ricorso normalmente a psicofarmaci.
Ci sarà un motivo? Siamo di fronte al fallimento della modernità laicista? Matthew Fforde su questo argomento ha le idee chiare. Storico e pensatore cristiano, docente di Storia contemporanea presso la Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa) di Roma, già autore di numerose pubblicazioni, da anni indaga e approfondisce le cause dell’infelicità, che lui chiama con nome e cognome: la desocializzazione, lo sradicamento degli uomini, la fine delle identità storiche, culturali, religiose, la secolarizzazione della società. Nel suo recentissimo libro “La Pastorale della Solitudine” (Ed. Cantagalli), oltre a ribadire concetti e riflessioni per lui consueti, va oltre. Presenta una serie di proposte che ruotano intorno a un nuovo ministero sociale, a un nuovo apostolato. Un modo non solo di resistere al pensiero unico, alla dittatura del relativismo, ma di reagire, di passare all’azione, di agire in concreto.
Professore, nel suo libro cita Madre Teresa di Calcutta: “La peggiore malattia dell’Occidente, non è la tubercolosi o la lebbra, ma il sentirsi abbandonati. La medicina può guarire le malattie del corpo, ma l’unica cura della solitudine, la disperazione e la mancanza di prospettive, è l’amore”. Ma cosa si intende per amore, visto che la società attuale usa molto questa parola, si autorappresenta come allegra, ludica, in perenne connessione con l’universo (i social, la rete globale), e i risultati invece, sono drammatici, in termini di povertà, guerre, solitudine, droga, abbandono etc?
“Dobbiamo ragionare in un’ottica di prospettiva storica, guardando soprattutto gli ultimi cinque decenni. Direi piuttosto che il nostro modo di capire l’amore si è molto indebolito di pari passo con l’arretramento della cultura cristiana. Il senso dell’amore si è perduto in parte con l’avanzamento dell’individualismo egoistico che rappresenta uno stile di vita ormai dominante. Bisogna tornare a Cristo e al suo ministero terreno per capire veramente cos’è l’amore. L’amore vuole il bene dell’altro, in particolare quello dell’anima, ma soprattutto richiede la compassione per gli afflitti. Nella mia vita sono stato sempre sospettoso verso le persone che non provano compassione, perché questa rappresenta un elemento essenziale della nobiltà umana. Amore significa aiutare chi è in difficoltà, la parabola del Buon Samaritano è emblematica. Ormai non ci sono più dubbi. La solitudine di massa è un drammatico segno dei tempi. Un sondaggio quest’anno in America ha accertato che tre americani su cinque soffrono di solitudine e nelle società occidentali questa è ormai un’esperienza maggioritaria, quasi sistemica. Tornando al Buon Samaritano direi che oggi la strada che conduce da Gerusalemme a Gerico è piena di vittime: ma attenzione, non vittime dei briganti, ma dell’abbandono, dell’indifferenza e di una cultura che io definisco ‘anti-cultura disfunzionale’. Il nostro compito è aiutare queste persone, come moderni buoni samaritani, ed è per questo che propongo una Pastorale della solitudine”.
Il Coronavirus ha obbligato gli Stati e le persone a dare il meglio e il peggio di loro. Il distanziamento, il chiudersi dentro casa, ha evidenziato i veri problemi che affliggono gli uomini, senza schemi, senza ruoli sociali e doveri lavorativi. Senza maschera esterna, siamo tutti soli e infelici? Esposti a qualsiasi dittatura, tipo Grande Fratello?
“Siamo esposti sempre di più a poteri e interessi lontani da noi. La persona a cui mancano i legami sociali e soffre di solitudine, si rivolge alla società di comunicazione di massa, ai social media, ad internet. Il problema è che non abbiamo un vero potere di controllo su ciò che ci viene trasmesso dalla rete. Credo che un esperimento come quello determinato dal Covid 19 che ci ha isolati per mesi, potrebbe anche avere i suoi lati positivi. Non tutti i mali infatti vengono per nuocere. La mia speranza è che questa quarantena di massa ci abbia aiutato a riflettere sui lati oscuri dell’isolamento. E non mi riferisco a quello imposto dalle regole sanitarie, quanto a quello che deriva da un’altra epidemia che definirei parallela, determinata da una condizione culturale disfunzionale spesso di natura anti cristiana. Dopo questi due mesi e mezzo di quarantena, spero che milioni di persone siano più coscienti della solitudine subita, che forse non avevano mai sperimentato prima, e della necessità di combattere la solitudine in tutte le sue forme, contrastando le tante derive che la determinano”.
Secolarizzazione e globalizzazione sono in qualche misura collegabili?
“Certamente. La globalizzazione tende a creare una società di massa su scala globale, e come abbiamo visto in Occidente, dalla rivoluzione industriale in poi, ha il potere di creare l’anonimato trasformando gli esseri umani in tanti puntini separati gli uni dagli altri. In pratica è il contrario della cultura cristiana del prossimo, perché nella società di massa il prossimo non esiste più. La globalizzazione tende poi a smantellare la cultura sociale esistente in un popolo, e nella società occidentale questo corrisponde a sradicare la cultura cristiana che ancora vi abita. Si profila così una matrice universalistica fatta di diversi elementi che non sono in linea con la tradizione giudeo-cristiana. Stiamo assistendo al consolidamento di un progetto iniziato con l’Illuminismo che contiene forti elementi di opposizione e contrasto alla cultura giudeo-cristiana”.
Lei sostiene che spiritualità e comunità sono intimamente connesse. Da questi due valori si deve e si può ripartire?
“Stiamo parlando del cuore del problema. Per contrastare la desocializzazione dell’uomo contemporaneo e far arretrare la solitudine subita, dobbiamo tornare all’anima della sana spiritualità, perché l’amore per l’amore e l’amore per la verità non soltanto generano l’assoluto dell’anima, ma sono anche l’espressione della massima spiritualità sana e gli ingredienti di una vera comunità a tutti i livelli. La cultura di una società deve a sua volta incentivare la spiritualità. Con il venir meno della cultura cristiana si percepisce sempre meno che l’uomo ha un’anima, o meglio che l’uomo è un’anima. Invece oggi dobbiamo fare i conti con una rivoluzione antropologica che tende ad identificare l’uomo con il suo corpo, con le sue pulsioni individualiste, con il suo essere un prodotto della società di massa. Questa è la cultura dell’essere umano oggi dominante, che ha sostituito l’uomo spirituale, legittimando quelle che possono essere considerate eresie a tutti gli effetti che rendono incredibilmente modelli di vita sbagliati maggiormente plausibili. Per generare amore per amore e amore per la verità, che a loro volta devono poi generare la vera e autentica comunità, dobbiamo percepire l’esistenza dell’anima e quindi andare controcorrente rispetto alla rivoluzione antropologica della nostra epoca”.
Lei assegna ai credenti un’importante funzione esistenziale che può declinarsi a 360 gradi: “I cristiani sono oggi chiamati a guarire l’uomo occidentale da questa epidemia della nostra epoca ed alleviare la sofferenza che ne deriva”. Ritiene davvero che la Chiesa, come agenzia di senso, possa svolgere questa missione, o il suo è semplicemente un auspicio?
“La Chiesa è l’insieme dei fedeli, l’insieme dei credenti. Ci troviamo di fronte una realtà ancora molto significativa sia in Occidente che nel mondo. Devo dire che tanti alti ecclesiastici sono stati assolutamente consapevoli in questi anni del dramma originato dalla solitudine frutto della scristianizzazione. Basti rileggersi tanti interventi del Papa emerito Benedetto XVI o il discorso di Papa Francesco al Parlamento europeo nel 2014. Tornando poi a madre Teresa di Calcutta mi piace ricordare quando, in occasione della cerimonia della sua canonizzazione, il segretario di Stato vaticano cardinal Parolin accennò al grave problema della solitudine. Quindi al vertice della Chiesa c’è una forte coscienza rispetto a questo problema. Attenzione, qui non si tratta di stabilire se i credenti possano o meno svolgere una funzione, direi che questo è ormai un imperativo categorico. Bisogna agire, non si può restare a guardare. Io nutro grande fiducia nei cristiani e nella loro capacità di scongiurare il flagello. I due grandi fenomeni degli ultimi cinquant’anni in Occidente sono rappresentati dalla desocializzazione che porta alla solitudine e dalla decristianizzazione sociale. Quindi una prospettiva logica sembra suggerire che questi due fenomeni siano legati in modo causale, l’uno sia la conseguenza dell’altro. Cristo sulla terra ci ha insegnato ad amare e ad aiutare gli afflitti, e ci ha anche detto che sarebbe stato presente negli afflitti. Quindi aiutare chi soffre di solitudine significa seguire in primo luogo gli insegnamenti di Cristo, ma soprattutto aiutare Cristo stesso che rivive in queste persone. Ecco perché nel mio libro lancio una nuova proposta: quanto sarebbe bello se dopo la morte, Cristo ci dicesse che era solo, soffriva per questo e noi lo abbiamo aiutato. Questa è la missione dei cristiani oggi nel mondo”.