lunedì, 18 Novembre, 2024
Politica

Il Pd cambi mentalità non il segretario

Nel Partito Democratico tornano ad agitarsi gli animi, dopo un periodo di calma abbastanza piatta. Cosa c’è dietro questa ripresa di polemica interna? È davvero a rischio la segreteria di Zingaretti?

Il partito ha subito, negli ultimi anni, tre scissioni e ha faticato non poco a trovare un segretario in grado di ricucire l’unità interna, dopo le rottamazioni di Renzi, i contraccolpi che avevano provocato e dopo la definitiva uscita dell’ex segretario dal partito.

Nicola Zingaretti è stato eletto nel marzo dello scorso anno al termine di un vivace confronto nelle primarie. Gli elettori del segretario non cercavano, dopo Renzi, un altro leader con forte personalità carismatica, ma un personaggio equilibrato, che non spaventasse nessuno, capace di ricucire una sfrangiata vita interna in un partito ridotto, alle elezioni politiche, al 18%.

Zingaretti è riuscito a mettere pace nel partito, a recuperare un po’ di voti, a difendere roccaforti come l’Emilia Romagna e a tornare al Governo accettando di allearsi con chi non avrebbe mai -per sua dichiarazione- voluto fare qualsiasi accordo.

Dopo appena 5 mesi di segreteria e un radicale cambio di Governo, Zingaretti ha dovuto subire prima l’uscita di Calenda e poi la scissione di Renzi alla quale per la verità non si è opposto particolarmente.

Privo di un ingombrante leader capace di rubargli la scena, Zingaretti si è dedicato con pazienza ad evitare rotture con il M5S, bizzoso partner di governo, e finora è riuscito nell’impresa di evitare di mandare a carte quarantotto una coalizione faticosamente e rocambolescamente messa in piedi a fine agosto scorso.

Il bilancio di 12 mesi di segreteria di Zingaretti è sicuramente positivo: il Pd dal 2018 in qua è l’unico partito che guadagna voti, a parte l’avanzata vorticosa di Fratelli d’Italia. Gli altri perdono tutti. Cambiare un segretario che ha portato a casa buoni risultati, solo dopo un anno dalla sua elezione diretta, non è cosa saggia. Ma si può sempre cercare di migliorare.

Zingaretti non approfitta della posizione di forza relativa, non parlamentare ma politica, che il Pd ha nei confronti del M5S per caratterizzare meglio alcune scelte di governo. Il M5S è l’unico partito che da eventuali elezioni anticipate uscirebbe con le ossa rotte. E quindi, al di là delle scaramucce più o meno serie, il M5S è il più interessato difensore della durata sia del Governo che della legislatura. Il Pd potrebbe anche andare al voto domani sicuro di recuperare almeno un 3-5%. Zingaretti potrebbe mettere sul piatto questa posizione di vantaggio, rassicurare il M5S sulla durata della legislatura e ottenere in cambio qualcosa che sia più in linea con l’impostazione di una sinistra moderata.

Probabilmente Zingaretti temporeggia per assicurarsi che comunque si arrivi al 2022 per eleggere un capo dello Stato che non subisca il peso delle destre. Poi, nell’ultimo anno di legislatura proverà a forzare il gioco con il M5S.

Nel frattempo, oltre a ricucire all’interno, Zingaretti potrebbe riaprire le porte a coloro che erano andati via in polemica con Renzi e trovare un modo per dialogare costruttivamente con Calenda che resta un interlocutore serio, con idee e programmi concreti.

Ma il ritocco che Zingaretti deve fare al partito riguarda la percezione che di esso hanno i cittadini. Cambiare nome sarebbe saggio per significare più una svolta verso il futuro che una rottura rispetto al passato. Essere più presenti nella società, nei quartieri, a contatto con la gente comune è indispensabile per una forza che voglia definirsi di “sinistra”. Il Pd deve togliersi di dosso l’immagine di élite che guarda ai potenti e che dimentica i deboli e lo deve fare senza inseguire la demagogia populista ma cambiando linguaggio, proponendo politiche sociali strettamente collegate allo sviluppo economico, rompendo con gli schematismi di un vecchio sindacalismo e con le difese corporative di categorie già ampiamente protette e privilegiate.

Per ottenere questo risultato Zingaretti dovrebbe dare più spazio a coloro che sul territorio sanno ben governare e possono fornire contributi derivanti da esperienza sul campo e non solo nella burocrazia interna del partito.

Più che cambiare segretario il Pd dovrebbe cambiare mentalità, non stare sulla difensiva ma imbracciare alcune battaglie cruciali, come quella dello sviluppo economico e dell’equità senza timidezze.

Ne trarrebbe vantaggio il partito ma anche il Paese.

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