Un anno fa l’Italia firmava l’accordo con la Cina, nell’ambito del progetto economico “Via della seta”. L’accordo ha durata quinquennale con rinnovo automatico salvo “disdetta” di una delle parti. Il nostro Paese si aggiungeva così ad una lista di altri 13 Stati dell’Unione europea (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia) ai quali si è accodato da poco anche il Lussemburgo. Un mese fa anche la Svizzera ha detto si a Pechino, portando a oltre 70 il numero degli Stati che partecipano alla Belt and Road initiative, formula sintetica del progetto denominato “The Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road“.
Belt, la cintura, è costituita da percorsi di trasporto via terra per collegare la Cina, l’Europa, la Russia e il Medio Oriente mentre Road, la strada, è l’insieme delle rotte marittime che vanno dall’Asia all’Europa settentrionale solcando i mari del Medio Oriente, dell’Africa e il nostro Mediterraneo.
L’Italia è l’unico Paese del G7 ad essere entrato nel progetto cinese. Un primato assoluto. È stata una scelta saggia?
Gli scambi commerciali sono il sale della terra della convivenza pacifica degli Stati. “Dove passano le merci non passano gli eserciti”, si dice, riprendendo una celebre massima dell’economista francese dell’800 Frederic Bastiat. E ci si augura che gli eserciti non usino poi le strade aperte dalle merci per fare scorribande militari.
Quindi, qualsiasi accordo commerciale è benvenuto, se produce vantaggi reciproci e non crea condizioni di subordinazione e perdita di sovranità.
Le 29 intese sottoscritte dall’Italia hanno un valore complessivo di 7 miliardi, una cifra significativa ma non tale da giustificare e prefigurare per l’Italia cambiamenti di alleanze consolidate nel tempo.
Immaginare che l’Italia, per 7 miliardi, possa abbandonare i tradizionali rapporti che la legano storicamente agli Stati Uniti e all’Europa significherebbe ritenere i firmatari degli accordi persone dotate di scarsa comprensione della realtà e di nessuna memoria storica.
Evidentemente non è così.
Ma tra le righe dell’intesa, al paragrafo 1, punto 1, c’è una parola di troppo rispetto all’idea di una cooperazione commerciale.
È scritto che il lavoro comune Italia-Cina “consentirà inoltre alle controparti di rafforzare i loro rapporti politici, i loro legami commerciali e gli scambi tra i popoli”.
Quindi non solo commercio ma anche politica.
E qui c’è il primo problema. L’Italia fa parte dell’Unione Europea e quindi gli accordi non solo commerciali ma anche politici con Stati di grande rilevanza li dovrebbe concludere all’interno di un quadro di riferimento comune europeo. Così non è stato. Si dirà che anche altri 14 Stati dell’Unione hanno fatto lo stesso. Ma l’Italia è Paese fondatore dell’Europa, è la terza potenza economica del Vecchio Continente e non può comportarsi -con tutto il rispetto- come la Bulgaria.
Qualcuno penserà che l’Italia ha fatto benissimo a muoversi da sola, magari bruciando sul tempo Germania e Francia. In realtà non è così. Rispetto a Francia e Germania l’Italia ha una collocazione geografica di maggior peso per le rotte marittime e quindi è sicuramente più “appetibile” per la Cina rispetto agli altri due Paesi leader in Europa.
Se e quando la Cina vorrà concludere intese anche con Francia e Germania si presenterà al tavolo delle trattative forte di aver già in tasca accordi con 14 membri dell’Unione tra cui, guarda caso, proprio l’Italia.
Il nostro Paese, se proprio avesse voluto muoversi in autonomia, avrebbe dovuto approfittare della sua rilevanza geopolitica per assumere un ruolo di Paese leader e guidare la cordata degli altri Paesi europei intenzionati ad entrare nella BRI. Ma questo non è avvenuto.
La Cina, ispirandosi a Filippo il Macedone, ha applicato il principio “divide et impera” e, con grande abilità, ha concluso solo accordi bilaterali ognuno dei quali porta con sé l’ovvia sproporzione dei rapporti di forza che ci può essere tra un gigante dell’economia e tanti rispettabili attori più o meno piccoli.
Dopo lo shock della pandemia, la Cina probabilmente dovrà rallentare i tempi di attuazione della BRI: oggi Pechino non ha nelle sue casse le ingenti riserve di valuta estera (4 trilioni di dollari) di cui disponeva quando il progetto decollò nel 2013.
In questo contesto, l’Italia che è stata così sollecita ad accordarsi con la Cina, per confermare la solidità delle sue alleanze storiche dovrebbe farsi promotrice di una forte collaborazione euro-atlantica. Potrebbe così accreditarsi come grande Paese che sa giocare un ruolo vero in politica internazionale e scrollarsi di dosso i sospetti di opportunismo e ambiguità che onore non fanno.
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