Un arresto silenzioso ma clamoroso scuote la diplomazia cinese. Liu Jianchao, alto funzionario del Partito Comunista e considerato uno dei principali candidati alla guida del Ministero degli Esteri, è stato prelevato dalle autorità all’arrivo da un viaggio all’estero, a fine luglio. La notizia, diffusa dal Wall Street Journal e confermata da fonti interne, ha sollevato interrogativi sulla stabilità interna del sistema diplomatico cinese e sulle lotte di potere all’interno del partito. Liu, 61 anni, è una figura di spicco: ex ambasciatore in Indonesia e nelle Filippine, portavoce del Ministero degli Esteri noto per il suo stile diretto e ironico, e dal 2022 responsabile delle relazioni esterne del Partito Comunista. In questa veste ha incontrato rappresentanti di oltre 160 Paesi, costruendo una rete diplomatica che lo aveva reso uno dei volti più riconoscibili della Cina all’estero. Le autorità non hanno rilasciato commenti ufficiali, ma secondo fonti vicine al dossier, l’arresto sarebbe legato a un’indagine interna per corruzione. Il caso ricorda la misteriosa rimozione dell’ex ministro Qin Gang nel 2023, allontanato dopo voci su una relazione extraconiugale. Entrambi gli episodi sembrano riflettere una crescente instabilità ai vertici della diplomazia cinese, in un momento in cui Pechino cerca di rafforzare la propria immagine globale. Liu Jianchao era considerato il favorito per succedere a Wang Yi, attuale titolare del dicastero, e la sua improvvisa scomparsa potrebbe rallentare la transizione diplomatica voluta da Xi Jinping. Alcuni analisti leggono l’arresto come un segnale di purga interna, altri come una mossa per consolidare il controllo del presidente su ogni ramo del potere. In attesa di chiarimenti, la Cina resta ufficialmente in silenzio. Ma nel mondo diplomatico, l’eco dell’arresto è già assordante.
